Rafforzare il Movimento per la Libertà del Kurdistan, che promuove un’agenda indipendente dalla modernità capitalista e avanza concretamente la costruzione della modernità democratica attraverso l’esempio del Rojava, equivale a rafforzare tutti gli attori alternativi e democratici nel mondo.
Ripubblichiamo dal sito dell’Ufficio Informazione del Kurdistan in Italia
Il primo trimestre del 2022 è passato, e ci permette di determinare le caratteristiche e le dinamiche chiave dell’attuale fase politica. Una corretta comprensione degli sviluppi politici nel loro contesto storico è fondamentale per le forze democratiche per difendere le società dalla cattura della modernità capitalista e per sviluppare un’agenda indipendente. Dopo lo stato di emergenza globale innescato dalla pandemia di coronavirus, le cui conseguenze sociali di vasta portata non sono ancora prevedibili, la guerra in Ucraina sta ora attirando l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale. Guerra e pace sono (di nuovo) diventate le questioni centrali del discorso occidentale. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica e la fine della Guerra fredda, i pensatori neoliberali avevano parlato di «fine della storia» e di «vittoria della democrazia». Eppure, oggi, titoli come «È di nuovo guerra» o «La guerra è tornata in Europa» dominano il discorso statale e mainstream nell’emisfero occidentale.
A sostegno di questo discorso dominante c’è un assunto eurocentrico di base: il mito che il mondo abbia vissuto in pace dal 1945 e che l’ordine mondiale stabilito sotto l’egemonia degli Stati Uniti abbia in gran parte tenuto a freno le tendenze belliche degli Stati capitalisti concorrenti. Di conseguenza, secondo questa narrazione, la competizione interstatale in Europa, che aveva portato a due guerre mondiali, era stata ampiamente contenuta, e la Germania Ovest e il Giappone erano stati reintegrati pacificamente nel sistema capitalistico mondiale dopo il 1945. Inoltre, erano state create istituzioni di cooperazione a livello internazionale, compreso quello europeo (il mercato comune, l’Unione Europea, la NATO, l’euro, ecc.) Questa lettura dominante ignora l’altro lato della storia. Dal 1945, infatti, sono state combattute numerose guerre «calde» (sia civili che interstatali). A partire dalle guerre di Corea e del Vietnam, seguite dalle guerre jugoslave e dai bombardamenti della NATO sulla Serbia, dalle due guerre contro l’Iraq (una delle quali giustificata da evidenti menzogne statunitensi sul possesso di armi di distruzione di massa da parte dell’Iraq), dalle guerre in Yemen, Libia, Siria e in altre parti del mondo. Non sorprende quindi che, soprattutto per le società dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina, la crisi ucraina riveli ancora una volta l’ipocrisia e i doppi standard dell’Occidente quando si tratta del valore della vita umana, della migrazione o della sovranità degli Stati nazionali.
La Terza guerra mondiale
Per una corretta valutazione degli attuali sviluppi della guerra in Ucraina, ma anche delle altre dispute (interstatali), il quadro concettuale e teorico della «Terza guerra mondiale» offre un orientamento centrale. Questo termine, utilizzato dal Movimento per la Libertà del Kurdistan da oltre due decenni, descrive il processo di riordino globale in atto dal crollo dell’Unione Sovietica. La lotta per il potere globale, che il Movimento per la Libertà del Kurdistan definisce Terza guerra mondiale e che negli ultimi mesi è stata sempre più utilizzata nei dibattiti mainstream, è iniziata con la fine dell’ordine mondiale bipolare nel 1989-90 e la conseguente rottura degli equilibri precedenti. Da allora le società hanno assistito a una brutale lotta per il potere tra gli Stati nazionali, ma anche alla resistenza di attori non statali. Un breve sguardo agli sviluppi degli ultimi tre decenni conferma questa analisi e dimostra in modo impressionante che non si può parlare di «fine della storia».
Tuttavia, questa fase del nuovo ordine – la Terza guerra mondiale – ha un carattere e delle caratteristiche diverse rispetto alle guerre mondiali precedenti. In primo luogo, nell’attuale ordine mondiale multipolare, le lotte per il potere politico ed economico non possono essere descritte come una lotta tra diverse ideologie o sistemi sociali. Al contrario, tutti gli attori nazionali e i centri di potere in ascesa, come la Cina, l’India e persino la Russia, fanno parte della logica capitalista e del sistema mondiale capitalista. In secondo luogo, di fronte al crollo dell’egemonia statunitense, ci troviamo di fronte a tutti gli Stati-nazione o a forze regionali e internazionali che approfittano del momento per espandere le rispettive egemonie. Ogni attore legittima queste rivendicazioni e politiche in vari modi. In questo caso, la storia gioca spesso un ruolo centrale, come possiamo vedere nell’esempio delle ambizioni espansionistiche neo-ottomane dello Stato turco. In terzo luogo, in questo conflitto non ci sono fronti assoluti; c’è una simultaneità di cooperazione in un luogo e di scontro in un altro. In quarto luogo, i metodi di guerra della Terza guerra mondiale non sono paragonabili a quelli delle guerre del XX secolo. Mentre la Prima e la Seconda guerra mondiale erano ancora caratterizzate da battaglie materiali, oggi le potenze internazionali raramente si scontrano direttamente, ma conducono i loro conflitti attraverso guerre per procura. I primi anni della guerra in Siria o la guerra civile ucraina dopo gli sviluppi di Maidan nel 2013-14 sono esempi di tali guerre per procura. Inoltre, la guerra mediatica, la guerra biologica e le guerre commerciali sono metodi importanti per la Terza guerra mondiale. L’escalation della guerra commerciale iniziata tra Stati Uniti e Cina nel 2018 o la recente guerra commerciale tra Stati Uniti, Regno Unito, Unione Europea e Russia possono essere viste in questo contesto.
Il quadro geografico di questo processo di riordino globale è stato riassunto dallo stratega statunitense Zbigniew Brzeziński come la «grande scacchiera». Egli aveva in mente l’«Eurasia» come principale arena delle future lotte di potere – l’enorme complesso di terre che Europa e Asia formano insieme. Nel 1997, l’ex consigliere per la sicurezza nazionale del presidente americano Jimmy Carter scrisse che la battaglia per la supremazia globale si sarebbe svolta su questa scacchiera, perché il pericolo maggiore per gli Stati Uniti, dal punto di vista geostrategico, sarebbe sorto se una potenza straniera fosse riuscita a combinare Europa e Asia («Eurasia») in un blocco di potere coeso. Dopo il ritiro dell’Unione Sovietica, questa lotta di potere intra-imperialista si è inizialmente concentrata sul Medio Oriente ed è stata combattuta parallelamente in altre parti del mondo. In questo contesto, la guerra in Ucraina costituisce una continuazione della Terza guerra mondiale in Europa.
Rafforzare l’alleanza transatlantica
Diamo un’occhiata più da vicino alle politiche attuali e agli obiettivi strategici dei vari attori, che sono diventati ancora una volta molto evidenti sulla scia della crisi ucraina.
Dopo il crollo dell’Unione Sovietica, le domande centrali della politica estera statunitense sono state: come schiacciare le qualità imperialiste di Russia e Cina? Come portare l’Europa (in particolare Germania e Francia) sotto l’egemonia statunitense e come eliminare le potenze regionali anti-occidentali (come l’Iran)? Come si può ottenere il controllo sulle forze che potrebbero abbandonare l’alleanza occidentale (Turchia)? Questa politica viene applicata contro gli Stati presi di mira utilizzando un mix di metodi (diplomatici, economici, culturali, mediatici e ideologici) di «soft power» e di «hard power» (forza militare palese e occulta). L’opzione bellica è la sua caratteristica più importante, soprattutto per quanto riguarda i Paesi-obiettivo (come Russia, Cina e Iran). Questo perché le dinamiche di sviluppo di alcuni Stati non possono essere spezzate solo dal «soft power», quindi una guerra «calda» contro queste potenze, sostenuta dal «soft power», è considerata necessaria per ottenere risultati. Gli Stati Uniti e la Gran Bretagna hanno quindi sviluppato una strategia in cui le diverse fasi si intrecciano, si costruiscono l’una sull’altra e si sviluppano gradualmente nella dimensione di una guerra mondiale.
Con la guerra in Ucraina, gli Stati Uniti hanno soprattutto rafforzato in modo significativo la loro egemonia nella regione europea e quindi l’alleanza transatlantica. Così facendo, hanno fatto regredire la politica di «autonomia strategica» avanzata dall’UE negli ultimi anni. La NATO, che il Presidente francese Macron ha accusato di essere «cerebralmente morta» tre anni fa, ha dimostrato chiaramente la sua ragion d’essere per «l’Occidente» di fronte alla «minaccia russa». L’adesione alla NATO è ora presa in seria considerazione da Svezia e Finlandia, mentre continuava a essere rifiutata dalla maggioranza dei finlandesi e degli svedesi prima della guerra in Ucraina. Anche l’aumento delle spese militari che gli Stati Uniti e la NATO chiedono da anni è stato soddisfatto. Pure dal punto di vista economico, la dipendenza dell’Europa dal gas naturale statunitense aumenterà inevitabilmente a tempo indeterminato con l’arresto del gasdotto North Stream 2. Con la guerra in Ucraina, l’Europa è ora, in un certo senso, condannata ad acquistare il costoso gas naturale dagli Stati Uniti.
«Fine della moderazione militare»
Alla luce della guerra in Ucraina, in Europa si stanno rimescolando le carte. La portata di questi cambiamenti è visibile anche nelle ultime decisioni, discorsi e politiche della Germania. I governanti politici annunciano la crescente militarizzazione della Repubblica federale con parole come «svolta epocale», «cambiamento di paradigma» e «rivoluzione strategica nella politica di sicurezza e difesa». I messaggi del discorso chiave del Cancelliere Olaf Scholz al Bundestag e le dichiarazioni del Ministro degli Esteri del Partito Verde sono chiari e inequivocabili: la fine della moderazione militare. «Il nostro obiettivo è sviluppare uno degli eserciti più capaci e potenti d’Europa nel corso di questo decennio», hanno dichiarato i funzionari del governo tedesco. L’obiettivo del 2% della NATO deve essere superato, e quest’anno la Bundeswehr (l’esercito della Repubblica federale tedesca) sarà dotata di un fondo speciale di 100 miliardi di euro. Berlino si impegna espressamente a rivendicare una leadership globale e a farla valere, anche con mezzi militari. Questi discorsi sono già stati preparati dai media e dai think tank politici negli ultimi anni, rafforzando così la linea politica preparata nel documento strategico del 2013 New Power – New Responsibility dell’Istituto tedesco per gli affari internazionali e di sicurezza (SWP). In questo documento, viene formulata la richiesta di assumere una posizione più offensiva nella politica mondiale. La Repubblica federale si vede ancora come «una potenza in attesa». Ora la situazione deve cambiare: «La Germania dovrà essere leader più spesso e con più decisione in futuro». La potenza leader tedesca si è avvicinata a passi da gigante a questo obiettivo con 100 miliardi di euro e più del 2% della produzione economica per l’esercito, oltre ad aver fornito consistenti forniture di armi a Kiev. Finora, la popolazione tedesca ha ostacolato questo obiettivo. Ma con l’atmosfera creata dalla guerra in Ucraina, il clima sociale e la militarizzazione della società, il governo tedesco può contare su alti indici di gradimento.
Il «mondo russo»
Anche la posizione e il ruolo della Russia nel mondo multipolare sono cambiati in modo significativo negli ultimi tre decenni. Dopo la caduta dell’Unione Sovietica, il consolidamento dello Stato russo di fronte alle molteplici crisi era inizialmente in agenda. Soprattutto, però, gli Stati Uniti – e sempre più la Germania e l’Unione Europea insieme a loro – hanno esercitato su Mosca una pressione politica via via maggiore. Uno strumento è stato quello delle «rivoluzioni colorate»: rovesciamenti filo-occidentali, massicciamente promossi da Washington e successivamente da Berlino e Bruxelles, prima in Jugoslavia (2000), poi in Georgia (2003), in Ucraina (2004) e in Kirghizistan (2005). In tutti i casi, le «rivoluzioni colorate» consistevano nel sostituire i governi che collaboravano con la Russia, o che comunque perseguivano una sorta di politica di equilibrio tra Mosca e l’Occidente, con forze filo-occidentali. Inoltre, è stata portata avanti l’espansione della NATO fino al confine russo. Nel corso di questa espansione verso est, la NATO è passata da includere 16 (1990) a 30 (2020) Paesi.
Tuttavia, nonostante il continuo aumento delle aggressioni occidentali, la Russia è riuscita a consolidarsi in una certa misura, e ad acquisire influenza in politica estera. La presenza russa in Siria dal 2015 e la cooperazione russo-turca ne sono un esempio. La Russia vuole essere non solo un attore centrale in Europa, ma anche un attore globale allo stesso livello di Stati Uniti e Cina. Così, nei negoziati che hanno preceduto la guerra di aggressione della Russia contro l’Ucraina, Putin non ha percepito gli Stati europei come interlocutori, ma ha ripetutamente affermato che la questione doveva essere risolta tra Stati Uniti e Russia.
Un elemento centrale che dà forma alle politiche e al linguaggio di Putin, molto diffuso tra l’opinione pubblica russa, è la percezione che la Russia sia stata svantaggiata e ingannata nei negoziati post-Guerra fredda. Questo senso di umiliazione è stato rafforzato dal trattamento economico riservato alla Russia e dall’atteggiamento dell’Occidente nei confronti del suo posto nell’ordine globale. L’affermazione di Putin «Rivoglio lo status perduto della Russia» può essere interpretata in questo senso anche come una richiesta di una nuova Conferenza di Yalta. Dopo la Seconda guerra mondiale, la Conferenza di Yalta ha delineato la mappa dell’Europa e l’ordine mondiale bipolare, in cui la Russia era uno dei principali attori insieme a Stati Uniti e Inghilterra. Dopo la Guerra fredda, la Russia ha perso questa posizione e la mappa geopolitica europea è stata ridisegnata nonostante la sua opposizione. La storia ci insegna che l’umiliazione è uno strumento pernicioso in politica estera, spesso con effetti duraturi e disastrosi. L’umiliazione della Germania a Versailles ha avuto un ruolo importante nella preparazione della Seconda guerra mondiale. Dopo il 1945, le élite politiche hanno impedito il ripetersi di questa umiliazione della Germania occidentale e del Giappone con il Piano Marshall, per poi ripetere il disastro di umiliare la Russia (a volte attivamente, a volte involontariamente) dopo la fine della Guerra fredda.
Così, i rappresentanti dello Stato russo giustificano le loro politiche imperialiste nella Terza guerra mondiale in generale, e oggi in Ucraina in particolare, con elementi centrali del concetto di «Mondo russo» (Russkij Mir). Pertanto, alla base della guerra in Ucraina non ci sono solo cause di politica interna ed estera, ma anche motivazioni a lungo termine e concetti ideologici e geopolitici. Il concetto di «Russkij Mir» parla dei russi come di un «popolo diviso» e sottolinea lo «sforzo del mondo russo, della Russia storica per il ripristino dell’unità». Sottolinea l’esistenza di una «grande civiltà russa» che deve essere protetta dal mondo esterno (soprattutto dall’Occidente) e che viene definita come la sfera di interesse della Russia. In questo senso, questa concezione (simile al neo-ottomanismo turco) è una congerie di varie correnti del nazionalismo russo anti-occidentale, anti-liberale e neo-imperiale.
Resistenza contro l’isolamento internazionale
Esemplificativi della falsa immagine di sé dell’Occidente (eurocentrico), ma anche del nuovo equilibrio politico di potere all’interno dell’ordine mondiale multipolare, sono gli sforzi delle potenze transatlantiche per isolare la Russia a livello internazionale. Infatti, mentre gli Stati europei sono per lo più uniti nell’opposizione all’attacco russo all’Ucraina, il quadro al di fuori dell’Europa appare molto diverso. Ad oggi, ad esempio, il numero di Paesi che partecipano alle sanzioni occidentali contro la Russia non supera i 48 – la maggior parte degli Stati europei e nordamericani, oltre a 6 dei loro partner più stretti nella regione Asia-Pacifico. Non si tratta nemmeno di un quarto del totale dei 193 Stati membri delle Nazioni Unite; tre quarti degli Stati membri dell’ONU si rifiutano di aderire alle sanzioni occidentali contro la Russia, nonostante le notevoli pressioni esercitate in alcuni casi. Le ragioni sono, da un lato, considerazioni economiche o geostrategiche derivanti dal crollo dell’egemonia statunitense. L’India, ad esempio, sta espandendo le sue relazioni economiche con la Russia e sta lavorando a un sistema di pagamento indipendente dal dollaro statunitense e da SWIFT. In Sudafrica, Gazprom è in trattative per un accordo miliardario sul gas naturale. La Turchia funge da punto di trasferimento per il traffico di passeggeri o il commercio con la Russia. Israele si astiene dal prendere una posizione ferma nei confronti della Russia. Anche gli Emirati e l’Arabia Saudita continuano a rifiutarsi di cedere alle pressioni occidentali per aumentare la produzione di petrolio più del previsto, al fine di rendere possibile un embargo petrolifero globale contro la Russia. Anche la visita di Assad – l’uomo forte siriano – negli Emirati Arabi Uniti a fine marzo, il suo primo viaggio in un Paese arabo dall’inizio della guerra siriana, esemplifica la potenziale politica di equilibrio di potere. Oltre a queste ragioni economiche e geostrategiche, tuttavia, un’altra ragione della diffusa opposizione alle sanzioni occidentali è l’eredità coloniale dell’Occidente, in particolare in Medio Oriente, Asia e America Latina. Per questi Paesi, la «violazione del diritto internazionale» non ha un grande significato e non si riconosce una grande differenza tra le guerre contro l’Iraq (Stati Uniti, 2003) e l’Ucraina (Russia, 2022). Anche i «due pesi e due misure» nei confronti dei rifugiati non sono sfuggiti al pubblico critico.
Il problema del militarismo nella società
Con la guerra in Ucraina, il problema del militarismo della società è tornato alla ribalta. A questo proposito, una dichiarazione del leader del pensiero curdo Abdullah Öcalan è perspicua: «Sebbene il militarismo sia una forza che ha penetrato, controllato e governato la società nel corso della storia e in tutti gli Stati, la sua crescita ha raggiunto il suo apice nell’era della classe media (borghesia)». Attualmente ci troviamo in una fase in cui il regime internazionale di disarmo, costruito nell’ultimo decennio prima della fine della Guerra fredda, sta subendo il colpo più duro. Il ritiro dagli storici trattati di disarmo da parte di Stati Uniti e Russia negli ultimi anni riflette questa tendenza globale. L’Europa, che da anni si sta riarmando contro la Russia, ha registrato i più alti tassi di aumento delle importazioni di armi al mondo.
Non è un caso che lo storico riarmo della Bundeswehr sia promosso da una coalizione di governo tedesca composta da socialdemocratici e verdi. Quando la Germania entrò in guerra in Jugoslavia con la NATO nel 1999, Jürgen Rüttgers, uno dei principali politici conservatori dell’epoca, disse, parafrasando: «Se avessimo inviato i jet Tornado, il mondo si sarebbe indubbiamente sollevato. Ma quando lo fanno la SPD e i Verdi, né i sindacati, né le chiese, né il movimento pacifista e l’opinione pubblica internazionale si oppongono». In questo senso, il più grande programma di riarmo dalla Seconda guerra mondiale non ha finora incontrato alcuna seria opposizione da parte di sindacati, chiese o opinione pubblica. Nella loro riunione in primavera, i vescovi cattolici tedeschi hanno persino dichiarato che le forniture di armi sono «fondamentalmente legittime» e che anche l’annuncio del governo tedesco di investire altri 100 miliardi di euro nella Bundeswehr è «fondamentalmente plausibile». A ciò si aggiungono le lodi dei commentatori conservatori per il «senso verde della realtà» che ha portato a una relativizzazione della protezione ambientale nella leadership del partito dei Verdi in vista della guerra in Ucraina. La leadership del partito dei Verdi ha apertamente dichiarato che «in caso di dubbio» la politica di sicurezza ha una priorità maggiore rispetto alla politica climatica e che «il pragmatismo deve battere qualsiasi determinazione politica». Nel corso di poche settimane, i Verdi hanno iniziato a difendere molte cose che in realtà avevano dichiarato di voler fondamentalmente rifiutare: gli accordi sul gas con gli autocrati, il gas da fracking la cui estrazione danneggia l’ambiente, le centrali elettriche a carbone come riserve per la produzione di elettricità o le forniture di armi alle aree in crisi. Se si considera che la spesa militare globale di 1,93 trilioni di dollari nel 2020 sarebbe stata sufficiente a finanziare la metà degli investimenti totali per la transizione energetica necessari per essere liberi da emissioni nel 2050, diventa chiaro quali interessi abbiano la priorità assoluta per le forze della modernità capitalista.
La necessità di una «terza via» in Europa
Gli sviluppi degli ultimi mesi, sia che si tratti del guerrafondismo fomentato principalmente dai media o del rafforzamento del nazionalismo e del militarismo, hanno reso ancora una volta evidente la necessità di una politica alternativa che prenda le distanze dall’agenda della modernità capitalista, degli Stati nazionali e degli interessi del capitale. Non solo nel contesto della guerra in Ucraina, ma anche in quello della Terza guerra mondiale, è necessario rafforzare una terza posizione basata sul principio «il nemico principale è nel proprio Paese» e sostenuta da forze e società democratiche. Questo include una posizione coerente contro la guerra dei governanti. In Paesi come l’Italia e la Grecia si sono già avuti i primi segnali di questa capacità di azione politica. Lì i lavoratori dei trasporti hanno bloccato le esportazioni di armi verso l’Ucraina. Il 31 marzo c’è stato persino uno sciopero portuale di un giorno nella città italiana di Genova contro il trasporto di armi e munizioni in Ucraina. È compito strategico delle forze democratiche in Europa difendere l’antimilitarismo senza alcuna concessione. Esse devono difendersi dalle varie strategie degli Stati che usano le «questioni sociali» per minare gli atteggiamenti contrari alla guerra presenti in ampie fasce della popolazione. A questo scopo è necessario dare vita a un nuovo movimento per la pace, nel cui ambito le forze democratiche, come polo alternativo, prendano posizione sulla Terza guerra mondiale e promuovano il loro programma.
Il declino del modello dello Stato-nazione in Medio Oriente
Anche il Medio Oriente è in preda a sconvolgimenti e al centro della Terza guerra mondiale. Questo non è un caso, ma è una questione legata alla crisi della modernità capitalista. Perché le crisi si fanno sentire meno al loro centro che non alla periferia. L’ordine Sykes-Picot nella regione, attuato da Gran Bretagna e Francia oltre cento anni fa, è diventato sempre più obsoleto negli ultimi decenni. I vari attori – potenze internazionali, Stati nazionali regionali e forze locali – operano sempre più spesso al di fuori del modello di Stato-nazione importato dall’Europa. Abdullah Öcalan ha analizzato l’attuale fase di declino degli Stati nazionali nella regione come segue: «Per gli Stati nazionali del Medio Oriente, l’esecuzione di Saddam Hussein in Iraq è paragonabile alla fine dei regimi monarchici inaugurata dall’esecuzione di Luigi XVI. Così come i regimi monarchici non riuscirono a riprendersi dall’esecuzione di Luigi XVI ed entrarono nell’epoca del loro declino, i regimi fascisti degli Stati nazionali non si sono ripresi dall’esecuzione di Saddam Hussein e sono entrati nell’epoca della loro dipartita. Così come il sistema egemonico in Europa ha usato invano tutto il suo potere per restaurare i regimi monarchici nel periodo dal 1815 al 1830, anche gli sforzi per preservare gli Stati nazionali in Iraq e Afghanistan saranno vani. Non sono solo questi due Paesi a sperimentare la disintegrazione dello Stato-nazione. Tutti gli Stati nazionali, dal Kirghizistan al confine con la Cina al Marocco sull’Oceano Atlantico, dagli Stati nazionali dello Yemen e del Sudan a quelli dei Balcani e del Caucaso meridionale, stanno vivendo crisi simili. Tra il Pakistan e l’Afghanistan non esiste più una divisione netta. Libano, Yemen e Sudan sono in costante fermento. Al minimo sussulto democratico, il regime egiziano rischia di crollare. L’Algeria non è ancora uscita completamente dalla guerra civile. La Turchia, che si definisce un’isola di stabilità, riesce a rimanere in piedi solo con l’aiuto delle operazioni speciali della NATO. Sembra che non ci sia Stato in Medio Oriente che non abbia problemi».
Processo rivoluzionario in corso in Kurdistan
In questo stato caotico, la Primavera araba è stata un breve risveglio dei popoli arabi per prendere posto in questa lotta per nuovi equilibri politici nella regione. Tuttavia, a causa degli interventi delle potenze regionali e internazionali, nonché della debolezza delle forze democratiche nei Paesi interessati, un processo di trasformazione democratica a lungo termine in questi Paesi non si è concretizzato. A differenza dell’effimera rivolta democratica nel contesto della Primavera araba, gli attuali sviluppi politici in Kurdistan continuano a essere co-determinati dal Movimento per la Libertà del Kurdistan sotto la guida del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK). Contrariamente alla mistificazione da parte delle forze della modernità capitalista, l’esistenza di questo movimento di libertà, che ha un paradigma sociale e un programma politico alternativo, ha garantito il processo rivoluzionario in corso in Kurdistan. La lotta per un Kurdistan libero e democratico è quindi vista anche come una lotta per una Federazione Democratica del Medio Oriente. Oggi, il Movimento per la Libertà del Kurdistan interpreta lo slogan «Libertà per il Kurdistan» nel senso di democratizzare i rispettivi Stati (Turchia, Siria, Iraq e Iran), consentendo al contempo sviluppi democratici in Kurdistan.
Le manifestazioni e gli eventi intorno alla Giornata della lotta delle donne dell’8 marzo e la partecipazione di massa alla festa del Capodanno curdo di quest’anno, il Newroz, hanno manifestato il ruolo centrale del PKK e della sua mente Abdullah Öcalan. Il radicamento sociale del Movimento per la Libertà del Kurdistan in Kurdistan e nel mondo è stato chiaramente mostrato, contrariamente a tutta l’anti-propaganda. La richiesta di libertà di Abdullah Öcalan e la fine del suo isolamento a İmralı è stata ancora una volta rafforzata come una richiesta centrale a livello nazionale e internazionale.
Il piano di smantellamento della Turchia persiste
Se da un lato la società curda ha chiaramente dimostrato durante il Newroz che continuerà la sua resistenza, dall’altro è evidente il programma del governo turco verso ulteriori massacri e invasioni del Kurdistan. Con la sua politica di guerra aggressiva e genocida contro la società curda e il Movimento per la Libertà del Kurdistan, la Turchia rappresenta un pericolo non solo all’interno dei propri confini, ma anche per le popolazioni dell’Amministrazione Autonoma della Siria del Nord e dell’Est (Rojava), nel Kurdistan del Sud – e qui soprattutto per il campo profughi di Mexmûr e la regione di Şengal (Sinjar). All’ombra della guerra in Ucraina, il Rojava in particolare è colpito da continui attacchi di droni, che negli ultimi mesi hanno provocato ancora una volta diversi morti e molti feriti. Gli attacchi dell’artiglieria e dei droni contro le aree residenziali e le infrastrutture civili e militari si verificano quotidianamente come parte di una «guerra a bassa intensità» condotta completamente in linea con i manuali di contro-insurrezione della NATO. Gli attacchi sono progettati per logorare e sfollare i civili e mirano anche a espandere la zona di occupazione jihadista turca. Continua anche la guerra d’acqua di Ankara contro la regione. Dall’inizio della guerra della Russia contro l’Ucraina, l’attività diplomatica relativamente attiva di Ankara sulla scena internazionale si è svolta parallelamente all’intensificazione degli attacchi aerei e terrestri della Turchia e dei suoi alleati in Rojava. Dietro a tutto ciò si cela lo sforzo della leadership turca di ottenere il via libera per un’altra invasione del Rojava, al fine di portare avanti il proprio percorso di espansione imperialista.
Dopo il fallimento delle operazioni militari contro le Forze di Difesa del Popolo (HPG) nelle montagne del Kurdistan, dall’inizio dell’anno la Turchia si è affidata a massicci bombardamenti contro le zone di difesa di Medya nel Kurdistan meridionale e nel frattempo ha invaso di nuovo l’area – uno stato di cose che la popolazione del Rojava conosce bene. L’Unione delle Comunità Democratiche del Kurdistan (KCK) ha rilasciato una dichiarazione il 26 marzo 2022, richiamando l’attenzione sul pericolo di un’operazione di occupazione nel prossimo futuro. Secondo la dichiarazione, i media curdi del Sud hanno discusso di una nuova invasione da parte dell’esercito turco e di un relativo accordo con il KDP (Partito Democratico del Kurdistan). Secondo questi rapporti, si sta discutendo anche di una partecipazione diretta dei peshmerga del KDP. La KCK ha lanciato un nuovo appello affinché il KDP non partecipi alla guerra di occupazione dello Stato turco e non si faccia strumentalizzare dal fascismo dell’AKP-MHP. Come tutti sappiamo, questo appello è stato purtroppo ignorato.
Attacchi all’Autonomia democratica di Şengal
Il fatto che la Turchia stia perseguendo un piano complessivo in Kurdistan per schiacciare il Movimento per la Libertà del Kurdistan può essere visto anche alla luce dei recenti sviluppi nella regione di Şengal. L’esercito iracheno, insieme al KDP curdo meridionale, ha ripetutamente tentato di portare la regione autogestita di Şengal sotto il suo controllo. Per isolare la comunità Ezida e dividere i gruppi della popolazione di Şengal, il governo iracheno sta esercitando una forte pressione sui villaggi arabi della regione. È iniziata anche la costruzione di un muro di confine lungo 250 chilometri e alto tre metri tra Şengal, nel Nord Iraq, e Rojava, nel Nord della Siria. L’accerchiamento e l’isolamento di Şengal chiuderà il corridoio di fuga che centinaia di migliaia di persone hanno utilizzato per fuggire in Rojava quando lo Stato Islamico ha attaccato la regione nel 2014. Questi ultimi attacchi contro la regione democratico-autonoma di Şengal mirano principalmente a indebolire la linea politica del paese e sono espressione del pericolo di un nuovo genocidio. Anche a Şengal, infatti, si sta portando avanti la costruzione dell’Autonomia democratica con alla base il suo concetto di società democratica, libera, multietnica e multireligiosa, e questo costituisce una spina nel fianco per le più svariate forze reazionarie.
Difendere la rivoluzione in Kurdistan
Oltre agli aspetti di politica estera della politica di guerra della Turchia, il governo turco continua a fare affidamento sulla repressione e sulla soppressione nella sua politica interna. L’alleanza di governo AKP-MHP ha perso massicciamente il sostegno della popolazione. Ciò è dovuto a problemi fondamentali come la crisi economica, la distruzione della politica democratica e il totale disprezzo per la giustizia. In risposta alla diminuzione del sostegno popolare e della legittimità, e a un anno dalle elezioni presidenziali e parlamentari, l’alleanza AKP-MHP nel parlamento turco ha approvato nuovi emendamenti alla legge elettorale volti a garantire il proprio potere. Con l’aiuto di queste modifiche alla legge elettorale, approvate dal Parlamento turco il 31 marzo, sarà possibile manipolare le elezioni a favore dell’AKP-MHP. Ad esempio, la soglia elettorale è stata abbassata dal dieci al sette per cento. L’emendamento è volto a consentire l’ingresso in parlamento del MHP fascista e permette al presidente Erdoğan, in qualità di primo ministro, di fare campagna elettorale per l’AKP con fondi statali. Parallelamente, continua la repressione contro gli attivisti del Partito Democratico dei Popoli (HDP). Migliaia di loro sono attualmente in carcere. Le procedure di messa al bando contro l’HDP sono state avviate e mostrano chiaramente l’atteggiamento dello Stato turco nei confronti di una soluzione pacifica e democratica della questione curda. Come le operazioni di occupazione della Turchia in varie regioni del Kurdistan, che violano il diritto internazionale, sono legittimate dal discorso del «terrorismo del PKK», così lo è anche la procedura di messa al bando dell’HDP. Legittimando tutti questi attacchi come lotta al terrorismo, lo Stato turco e i suoi alleati internazionali mirano a rendere impossibile la protesta pubblica. Per difendere efficacemente la rivoluzione in Kurdistan da tutti questi attacchi anche quest’anno, è quindi ancora più importante rompere il discorso del terrorismo. La campagna mondiale dell’iniziativa «Giustizia per i curdi» per la rimozione del PKK dalle «liste del terrorismo», con l’obiettivo di consegnare più di 4 milioni di firme al Consiglio d’Europa alla fine dell’anno, ha quindi implicazioni concrete per gli attuali sviluppi in Kurdistan. Una rottura con questo discorso di legittimità distruggerebbe le fondamenta della politica di guerra turca e darebbe alla società del Kurdistan la possibilità di respirare. Ma il «discorso del terrorismo» non è solo la base con cui la guerra in Kurdistan è stata portata avanti per decenni. Serve anche a criminalizzare la forza democratica meglio organizzata e più esperta del Medio Oriente. Rafforzare il Movimento per la Libertà del Kurdistan, che promuove un’agenda indipendente dalla modernità capitalista e avanza concretamente la costruzione della modernità democratica attraverso l’esempio del Rojava, equivale a rafforzare tutti gli attori alternativi e democratici nel mondo.