Esistono molti modi di condurre una guerra, così come esistono tanti tipi di guerra.
Nella vita di milioni di persone in tutto il mondo, il termine “Terza Guerra Mondiale” non è più un’idea astratta.
Proprio in questi giorni, in Europa, paesi come Germania, Francia e Italia annunciano il ripristino della leva militare. Questa epoca, che il leader del movimento curdo per la libertà, Abdullah Öcalan, definisce la “Terza Guerra Mondiale”, è caratterizzata da un’offensiva totale contro il nemico eterno della modernità capitalista: la società, ovvero tutti gli esseri umani di questo pianeta. Questa guerra si svolge in un mondo che potremmo definire multipolare, con forme ed entità diverse. Uno dei temi al centro della riflessione sulla Terza Guerra Mondiale è il processo di militarizzazione della società.
In “Sociologia della Libertà” Abdullah Öcalan rilegge il ruolo che esercito e militarismo hanno avuto nella storia dell’umanità. “L’esercito e il militarismo sono il braccio nettamente più organizzato del capitale e del potere; per la natura stessa dei suoi compiti, essa è l’istituzione che maggiormente domina e ingabbia la società. Sebbene il militarismo sia in generale un potere che si infiltra, controlla e domina la società in tutte le epoche e sotto ogni tipo di stato, esso ha raggiunto il suo apice nel monopolio dello stato-nazione nell’era della classe media e della borghesia.”1 Ocalan sostiene che il monopolio militare, insieme a quello economico, del potere e dello stato si alimentano del valore e del sapere della società, dissanguandola, come vampiri.
Il modo in cui il comparto militare si appropria del sapere dei giovani, attraverso le istituzioni statali dell’istruzione, per lo sviluppo e la riproduzione della guerra, è uno degli esempi più palesi di questo attacco. Per questo, abbiamo voluto intervistare il giornalista Luca Rondi, autore dell’inchiesta sui rapporti tra le aziende del comparto militare e le università italiane, pubblicata per la rivista Altraeconomia. Un’inchiesta che apre riflessioni e rivela un quadro molto più ampio di “semplici rapporti di collaborazione in tema di ricerca”. Un’inchiesta, quella di Luca Rondi, con un focus sull’Università italiana, ma che sappiamo bene, come le mobilitazioni degli studenti contro il genocidio in Palestina hanno saputo mostrare, potrebbe dare risultati simili in tutta Europa.
La militarizzazione delle istituzioni ha subito un’accelerata negli ultimi anni. Cosa ti ha spinto ad iniziare un’inchiesta, uscita su Altreconomia, in merito ai rapporti tra le aziende del comparto militare e le università italiane?
Io direi che mi ha spinto innanzitutto una necessità, che secondo me era molto attuale, di provare a fotografare la relazione tra il comparto militare e le sue aziende e gli atenei italiani.
Fare un po’ il punto, perché effettivamente l’Italia sconta, non solo sulla materia oggetto dell’inchiesta ma su tanti altri temi, una scarsissima trasparenza dal punto di vista delle informazioni disponibili e quindi diciamo che l’obiettivo basico, se vogliamo, dell’inchiesta era provare a ricostruire almeno tre elementi. Primo, in quanti atenei queste aziende avevano già, in qualche modo, un piede dentro.
In tempo di riarmo assistiamo non solo all’aumento dei fondi previsti da Rearm Europe, ma anche al raddoppio dei fondi del programma Horizon con l’introduzione per la prima volta del tema della difesa tra i quattro pilastri fondamentali della ricerca europea. In questo contesto, quindi, provare a capire quanti Atenei effettivamente avessero già degli accordi era importante. Allo stesso tempo però, e qua viene il secondo punto, secondo me era necessario anche provare a quantificare il peso di questi accordi in termini economici e in termini di contenuto, è vero e proprio. Questo è un punto rispetto a cui l’inchiesta si è scontrata un po’ con la scarsa trasparenza o sistematizzazione dei dati da parte degli Atenei. A nostro avviso, per i dati che abbiamo, è scorretto fotografare la situazione come una situazione in cui i bilanci degli Atenei stanno in piedi grazie agli accordi con le aziende militari, perché, su questo punto, l’impressione è che i privati prendano molto, ma lascino molto poco agli Atenei. Perché dico “l’impressione”? Perché purtroppo solo alcuni atenei hanno condiviso l’elemento più importante per noi, che era l’importo economico del progetto. Il terzo punto, poi, era restituire ai lettori e le lettrici come questi accordi, non solo, rischiano di snaturare il ruolo della ricerca, ma creano anche, all’interno degli atenei, delle vere e proprie correnti di potere; in cui poi chi ha gli accordi con queste aziende ha molta più voce in capitolo sulle decisioni interne all’università. Analizzare quindi il processo di riarmo accademico anche sulle conseguenze che ha sui processi democratici, già fragili, all’interno degli atenei. Questi tre punti sembrano solo apparentemente un po’ contraddittori tra loro, ma in realtà sono strettamente complementari tra di loro.
Come è avvenuta la tua indagine?
L’indagine si è svolta utilizzando l’“accesso civico generalizzato” e che permette non solo ai giornalisti ma a chiunque, a qualsiasi cittadino, di chiedere informazioni che l’amministrazione pubblica non è tenuta a pubblicare sul proprio sito, ma è tenuta a condividere nel momento in cui queste informazioni vengono richieste. Quindi ho chiesto tramite “accesso civico” queste informazioni agli Atenei, con una richiesta molto generica in cui chiedevo qualsiasi tipologia di accordi con Leonardo, Mbda, Thales Alenia Space e Ministero della Difesa; e per ogni accordo chiedevo l’importo, il dipartimento coinvolto e l’eventuale valutazione da parte del Comitato Etico interno all’Università.
Ho fatto questa richiesta a 32 università italiane, che sono quasi il 50% degli atenei pubblici attivi in Italia, e mi ha risposto più o meno il 90% degli interpellati. Questo non vuol dire che tutti abbiano risposto a tutte le domande. Come dicevo prima, la trasparenza è un problema grande e decisivo del nostro paese e di questo settore in particolare; se andiamo nel Regno Unito, negli Stati Uniti, non serve neanche fare richiesta per avere gli accordi in essere tra università e privati.
Hai riscontrato che le aziende in questione abbiano ruoli e progetti differenti tra loro?
La diversificazione delle attività di Leonardo, in corso negli ultimi anni, è anche un po’ lo strumento attraverso cui la società rivendica il suo DNA civile che, però, in realtà resta un DNA militare, derivando larga parte del fatturato dall’attività militare. Faccio un esempio, l’Università di Bergamo ha delle collaborazioni con Leonardo che sono collaborazioni, però, sulla sostenibilità ambientale, piuttosto che altre università hanno collaborazioni rispetto all’attività nell’ambito medico. Non tutti gli accordi che mi sono stati condivisi sono di ricerca militare, anzi. Infatti, se si fa richiesta di “accesso civico”, se c’è un privato coinvolto, l’ente pubblico deve notificare al privato la richiesta e chiedere disponibilità a condividere le informazioni in questione. Tra i motivi per cui non sono state condivise molte informazioni relative all’importo e ai titoli dei progetti, c’è stato il fatto che non fossero condivisibili per via del tema della difesa nazionale e della ricerca militare.
Questo è successo sia per progetti con Leonardo che con Mbda. Perché Mbda ha per oggetto sociale la produzione di missili e quindi qualsiasi ricerca degli atenei con Mbda è inevitabilmente una ricerca militare. Nello specifico Mbda ha accordi con 8 università italiane, tra accordi quadro e contratti veri e propri. Ad esempio, Mbda ha un progetto con l’Università di Palermo che, però, ci ha tenuto a sottolineare come l’accordo in essere sia un accordo di ricerca lontano dall’applicazione concreta perché è una ricerca di base.
Non solo aziende ma hai citato anche il ruolo del Ministero della Difesa?
Si, il Ministero della Difesa è presente nel 60% circa del campione che abbiamo preso in esame. L’elemento interessante del Ministero della Difesa, come nota Antonio Mazzeo, è che non si tratta solo di ricerca, applicabile alla difesa, relativa a sistemi di difesa. Diversi di questi accordi riguardano proprio i corsi di scienze umanistiche e quindi l’idea che il Ministero sia sempre più presente, anche, proprio nella costruzione di una lettura geopolitica della realtà, di quello che sta succedendo, delle soluzioni etc. Questo rappresenta, quindi, un salto di qualità, perché si passa da una ricerca scientifica a un’influenza diretta sull’istruzione.
Molto interessante questo dato emerso. Altro aspetto altrettanto interessante è che nell’inchiesta si pone l’accento sul ruolo del Comitato Etico dentro le università. Puoi spiegare meglio cosa è o potrebbe essere questa istituzione?
Va specificato innanzitutto che ogni Comitato Etico nelle università funziona in maniera diversa. Alcuni atenei si sono mossi per applicare il Comitato Etico anche sui temi della difesa o della ricerca militare, ma questo strumento nasce in realtà soprattutto nell’ambito delle scienze dure, per progetti legati a sperimentazioni cliniche (medicinali e dispositivi medici), o per eventuali problemi legali che possono derivare dall’attività di ricerca. In alcune presentazioni che ho fatto, effettivamente qualcuno mi ha detto che non aveva mai pensato al comitato etico come uno strumento per valutare la problematicità o meno di una ricerca dal punto di vista etico sul militare; a me sembra veramente un paradosso, però è comprensibile perché effettivamente nascono con un obiettivo diverso e sono utilizzati per scopi diversi. Il rischio dell’uso del Comitato Etico è che diventi un po’ una foglia di fico per le università, “l’abbiamo fatto votare al comitato etico e quindi va bene”.
D’altro canto, però, il Comitato Etico obbliga a tirare fuori le carte, nel senso che ovviamente è una valutazione si basa sul contenuto del progetto. Avere reale contezza del progetto non è una cosa così scontata. Non sempre, e questo l’abbiamo capito da alcune risposte che ci hanno dato gli atenei, a livello centrale si ha idea di cosa succede nei progetti specifici o di settore e quindi fare intervenire un Comitato Etico, che, in qualche modo, costringa a ragionare sui fatti, sulla documentazione, sul contenuto, può essere utile, ovviamente. Ad oggi, infatti, i Comitati Etici non vengono attivati all’interno delle università. Non sappiamo quanti degli accordi che ci hanno comunicato sarebbero dovuti passare dai Comitati Etici, però vi faccio un esempio, tutti gli accordi con Mbda non sono passati al comitato etico.
Lo leggo molto come un’università che era talmente poco abituata ad essere controllata, passami il termine, che non si poneva neanche il dubbio di dover rendere conto. Dal 7 ottobre in avanti è successa una novità, il tema non era solo “non vogliamo accordi con Leonardo, non vogliamo accordi sul militare”, il tema era “tirate fuori gli accordi che avete con Israele, diteci di che cosa si tratta e interrompeteli”.
A proposito di pressioni, nell’articolo si riportano gli interventi di alcuni docenti contrari a questo processo di militarizzazione e si riporta la foto di una protesta studentesca. Hai avuto modo di entrare in contatto con chi si oppone dentro l’università a questo processo? Che idea ti sei fatto?
È una domanda molto difficile anche perché non ho una conoscenza così approfondita. Secondo me, ovviamente dipende molto da Ateneo ad Ateneo e da dinamiche interne a questi Atenei. Un professore che ho incontrato mi diceva che la ricerca militare è una ricerca molto brutta, molto poco soddisfacente, ma che porta molti soldi. E quindi lui diceva che non tutti i professori iniziano a fare ricerca militare, perché è una ricerca molto statca. Io non so dirti se sia così o meno, però voglio ritornare sul tema del potere economico e dei processi democratici all’interno della dell’Ateneo, nel senso che poi molto dipende proprio da quanto alcuni docenti e alcuni dipartimenti pesano di più all’interno delle decisioni. Quindi, inevitabilmente, chi ha delle posizioni contrarie, ma magari ha meno contratti con i privati, o ha una forza molto minoritaria all’interno dell’Ateneo, può provarci in tutti i modi, ma di fatto resta tagliato fuori.
Per questo, secondo me, la spinta studentesca è decisiva, perché potenzialmente hanno molta più capacità di fare pressione gli studenti che docenti che magari non contano niente all’interno degli assetti dell’Ateneo. L’altro elemento è che, chi è precario all’interno dell’università oggi fa estremamente fatica; e nel caso di un anno di contratto su un dottorato con Leonardo, il problema, a mio avviso, non è il ricercatore che accetta, ma è una struttura universitaria che lo obbliga ad accettare. Non soltanto, ovviamente, però il tema del precariato è decisivo. Su un dottorato di tre anni con Leonardo tu magari stai un anno, l’anno dopo viene un altro e l’anno dopo viene un altro ancora. Tu come fai a capire cosa stai facendo?
Non in termini di impatto che avrà quello che stai facendo, ma a volte, su questi progetti, non capisci neanche cosa succede. Perché stai talmente poco e fai un pezzo talmente infinitesimale di un progetto, che magari è un progetto europeo e che coinvolge decine di persone, che tu veramente non solo non capisci cosa stai facendo, ma hai così poche informazioni che non hai neanche la possibilità di metterlo in discussione. Ci sono due domande essenziali da farci. Uno, l’unico accordo che abbiamo tra la Sapienza e Leonardo ci dice che la proprietà intellettuale della ricerca interamente trasferita a Leonardo. Quindi l’università non solo fa ricerca per Leonardo, per pochi soldi, ma poi gli regala completamente quello che ha fatto. Due, sarebbe interessante capire anche questi famosi tirocini, questa possibilità che Leonardo promette, di avere un impiego certo e ben pagato una volta usciti dall’università. Sarebbe interessante tirare fuori i numeri di quanto questi studenti poi vengano realmente assunti, e per quanto tempo lavorino nell’azienda, in che parte. Perché alla crescita del fatturato di Leonardo, in Italia, fino ad oggi, non è corrisposta una crescita degli impieghi. Un’altra domanda da farsi è quindi se questa ricerca militare all’università serva oppure no. Chiudo dicendoci un’ultima cosa. Attenzione a concentrarsi solo sui grandi nomi, perché ho l’impressione che ci siano tanti accordi con aziende, piccole, minori, sconosciute, che, dato che il nome non dice niente, passano molto in sordina, ma poi sono tutt’altro che neutre dal punto di vista dell’applicazione che fanno della ricerca commissionata all’Università.
1 “Sociologia della Libertà” è un libro scritto da Öcalan come parte del manifesto della civiltà democratica, è la terza parte ed è stato pubblicato in Italia nel 2023 per Punto Rosso http://www.puntorosso.it/libri-di-ocalan.html
