Nelle ultime settimane, l’attenzione dei media occidentali si è concentrata sulla scomparsa di un sottomarino, il Titan, che stava effettuando una spedizione per esplorare il relitto del Titanic. Il sottomarino aveva intrapreso un viaggio in acque profonde, offrendo un’esperienza emozionante a un piccolo gruppo di turisti benestanti che avevano pagato 250.000 dollari ciascuno per partecipare. Tra i cinque passeggeri a bordo c’erano il miliardario britannico Hamish Harding, il magnate degli affari Shahzada Dawood e suo figlio, un famoso oceanografo francese e l’amministratore delegato di OceanGate, la società che aveva organizzato la spedizione.
In seguito alle richieste di soccorso, le autorità hanno rapidamente lanciato una missione multinazionale di ricerca e salvataggio (SAR). Gli sforzi congiunti della Guardia Costiera statunitense e canadese, insieme a numerose imbarcazioni e aerei privati e commerciali, sono stati integrati dall’impiego di squadre internazionali con tecnologie SAR altamente specializzate. La Royal Canadian Air Force ha schierato velivoli dotati di un’avanzata tecnologia di rilevamento acustico sub-superficiale per aiutare gli sforzi di ricerca, me_Italic_ntre una nave da ricerca francese con un robot senza equipaggio in grado di scandagliare le profondità del fondo oceanico si è unita all’operazione. Nel giro di cinque giorni, le squadre di ricerca hanno localizzato numerose parti dell’imbarcazione sommersa, dando il via a un’indagine sulle cause dell’implosione del sottomarino e delle vittime a bordo.
Mentre i media hanno dato ampio risalto all’operazione di salvataggio su larga scala del sottomarino e dei suoi passeggeri, altri eventi recenti hanno messo in luce ancora una volta un’inquietante disparità nel valore attribuito alle vite umane. Poco prima dell’incidente del Titan, un’imbarcazione che trasportava circa 750 richiedenti asilo, tra cui oltre 100 bambini, in rotta dalla Libia all’Italia, si è rovesciata nel Mediterraneo. Nonostante la Guardia costiera greca abbia dichiarato che l’imbarcazione avrebbe rifiutato i soccorsi, gli attivisti sostengono che le persone a bordo hanno chiesto invece aiuto per 15 ore, senza ottenere risposta. Ulteriori indagini condotte dai giornalisti hanno confermato le affermazioni degli attivisti, indicando che la nave ha mostrato movimenti minimi per almeno sette ore prima di affondare. Il 23 giugno, lo stesso giorno in cui sono stati recuperati i resti della nave Titan, un altro tragico naufragio si è verificato ai confini esterni dell’Europa, a circa 160 chilometri a sud-est di Gran Canaria. Si presume che 39 persone abbiano perso la vita tentando la traversata dal Marocco alla Spagna. Anche in questo caso, nonostante l’attesa di oltre 12 ore per ricevere assistenza, l’imbarcazione in pericolo non ha ricevuto alcun aiuto dalle autorità spagnole o marocchine, né l’interesse della comunità internazionale o dei media.
Questi eventi, sebbene distinti, costituiscono uno sfondo straziante ma prevedibile per i recenti sviluppi di una nuova “politica europea in materia di asilo e migrazione”. Dopo anni di negoziati, all’inizio di giugno l’Unione europea (UE) ha raggiunto un accordo di compromesso su riforme sostanziali del proprio sistema di asilo, salutato dai politici come un approccio “storico”. Tuttavia, il Sistema europeo comune di asilo (CEAS) proposto non rappresenta un allontanamento dalle azioni precedenti intraprese dell’UE, ma piuttosto un’estensione delle politiche perseguite da diverse fazioni politiche per diversi decennni, tra cui gruppi di destra e socialdemocratici.
Un aspetto cruciale del CEAS è il suo impegno a espandere ulteriormente i finanziamenti per il programma di “esternalizzazione delle frontiere” dell’UE. Le politiche di esternalizzazione prevedono l’esternalizzazione del controllo frontaliero e della “gestione della migrazione” verso Paesi terzi, spesso con l’obiettivo di impedire l’arrivo stesso dei richiedenti asilo alle frontiere dell’UE. In questo processo, paesi non membri UE ricevono finanziamenti, formazione e supporto tecnico per rafforzare la loro capacità di controllare la migrazione nell’interesse economico europeo. Inoltre, vengono stipulati accordi bilaterali o regionali per promuovere la collaborazione nella gestione delle frontiere, nel controllo dell’immigrazione e nell’espulsione dei migranti verso i Paesi di origine. Dopo aver raggiunto l’accordo sul CEAS, l’UE non ha perso tempo per avviare un nuovo accordo sul regime di esternalizzazione delle frontiere con la Tunisia, offrendo al Paese 105 milioni di euro per la gestione delle frontiere, la ricerca e il salvataggio, la lotta al contrabbando e gli sforzi di rimpatrio. Nonostante l’Europa continui a criticare l’arretramento democratico del Paese da quando il presidente Kais Saïed ha assunto l’incarico nel 2019, insieme al suo incitamento a sentimenti razzisti e contro i migranti che hanno portato a un’ondata di brutale violenza contro i richiedenti asilo in tutta la Tunisia nel febbraio 2023, l’UE rimane impegnata a offrire un’ulteriore assistenza finanziaria di 1 miliardo di euro a condizione che la Tunisia attui le riforme necessarie – l’obiettivo di fondo è quello di esercitare un controllo sulla migrazione dalla Tunisia trovando un accordo con il presidente.
Oltre ai progetti di esternalizzazione, il CEAS comprende anche diverse nuove misure, tra cui l’imposizione di tasse di 20.000 euro a persona ai Paesi membri che si rifiutano di ospitare i rifugiati e l’attuazione di un nuovo sistema che facilita la ridistribuzione dei migranti tra le nazioni dell’UE, con quote specifiche per gli Stati di ingresso come Italia, Grecia e Spagna. Inoltre, ogni Stato membro è autorizzato a determinare la propria interpretazione di ciò che si definisce un Paese terzo “sicuro” per le deportazioni, il che solleva interrogativi sulla protezione dei richiedenti asilo e sul potenziale di disparità di trattamento tra gli Stati dell’UE. Il CEAS prevede anche l’esternalizzazione delle procedure di asilo alle frontiere esterne dell’UE e la proposta di una rapida deportazione di chiunque non ottenga asilo.
La ratifica dell’attuale versione del regolamento CEAS rappresenterebbe una rinuncia al diritto fondamentale all’asilo in tutta l’Unione Europea, come indicato nel Protocollo del 1967 alla Convenzione di Ginevra del 1951. Tuttavia, è essenziale considerare questo sviluppo nel suo contesto storico, tenendo conto della traiettoria pluridecennale delle politiche migratorie e di frontiera dell’UE. Dalla creazione dell’UE, che ha coinciso con l’inizio della globalizzazione, è stata posta una notevole enfasi sulla facilitazione della circolazione di beni, informazioni e denaro attraverso le frontiere grazie agli accordi commerciali e ai progressi tecnologici. Contrariamente alla mobilità delle persone che ha dovuto affrontare crescenti restrizioni e controlli, con un’intensificazione degli investimenti nei sistemi di sicurezza e sorveglianza delle frontiere. Nel 1992, quando l’UE ha attuato misure di liberalizzazione e di libera circolazione all’interno dei suoi confini interni, ha contemporaneamente implementato misure di sicurezza più severe alle sue frontiere esterne, a causa delle minacce percepite associate al crollo del socialismo reale e alla stigmatizzazione dei migranti in arrivo dall’Est come un “altro” pericoloso. Queste misure sono state ulteriormente amplificate in risposta alla “guerra globale al terrorismo” guidata dagli Stati Uniti, che ha erroneamente confuso la migrazione con il terrorismo, fornendo così la giustificazione per l’attuazione di misure di sicurezza eccezionali per affrontarlo. In entrambi i casi, l’infondata nozione di “minaccia migratoria” è stata deliberatamente costruita per legittimare l’attuazione di severe misure di sicurezza all’interno dell’UE, che hanno portato a una circolazione disuguale e strettamente controllata attraverso i suoi confini per le persone non cittadine europee. L’obiettivo primario di queste misure è stato quello di gestire una forza lavoro globale di migranti altamente spendibile e sfruttabile in base alle richieste del mercato.
Un altro punto importante da notare è che il Sistema europeo comune di asilo (CEAS), pur comportando il rischio di eliminare le valutazioni individuali in materia di asilo e prefigurando soluzioni securitarie ancora più estreme, rappresenta anche un ritorno al quadro originario del diritto internazionale dei rifugiati, come delineato nella Convenzione di Ginevra.
Inizialmente sviluppata per rispondere alle esigenze dei rifugiati europei all’indomani della Seconda Guerra Mondiale, la Convenzione ha acquisito un’applicabilità universale solo con il Protocollo del 1967. La proposta di CEAS indica che la politica di asilo dell’UE continua a essere guidata da principi eurocentrici ed escludenti piuttosto che da principi di internazionalismo o universalità. Ciò è diventato sempre più evidente attraverso il trattamento contrastante dei rifugiati europei e non europei, in particolare il trattamento preferenziale esteso ai rifugiati ucraini in seguito all’invasione russa del 2022 rispetto a quelli provenienti da Paesi extraeuropei non prevalentemente bianchi e cristiani.
Alimentare l’industria per la sicurezza dei confini
Le discussioni e le preoccupazioni che ruotano attorno l’adozione del CEAS non riconoscono un aspetto critico: la sua attuazione non è uno sviluppo scioccante o senza precedenti, ma piuttosto una continuazione dell’agenda dell’UE, da tempo ampiamente sostenuta, per il controllo della migrazione. Questa agenda ha già portato alla creazione di un vasto sistema di sicurezza e sorveglianza transnazionale che si estende ben oltre i confini dell’Unione Europea. Nel corso di tre decenni, questo apparato coordinato ha conosciuto un’espansione significativa come risultato diretto delle politiche durature che ricevono un consenso schiacciante da tutti gli schieramenti politici.
Ora, con la proposta del CEAS, questi sforzi saranno ulteriormente rafforzati. Ciò comporterà ulteriori finanziamenti destinati alla militarizzazione delle frontiere, allo sviluppo delle infrastrutture di confine, alla fornitura di aiuti di polizia, all’impiego di tecnologie di sorveglianza avanzate e alla creazione di collaborazioni di polizia transnazionali in determinati Paesi terzi. Tutti questi sforzi mirano a controllare la migrazione per servire gli interessi dei mercati e dei capitali dell’UE, con la normalizzazione delle morti alle frontiere come conseguenza sfortunata ma necessaria.
L’esternalizzazione delle politiche di frontiera dell’UE, attuata principalmente attraverso i programmi di finanziamento dell’assistenza allo sviluppo, ha svolto un ruolo fondamentale nell’alimentare una più ampia industria della sicurezza delle frontiere. Questa industria coinvolge una rete di attori che comprende entità statali e non statali, élite politiche locali, attori privati, ONG, think tank e altri. Ognuno di questi attori beneficia in vario modo dell’espansione dell’industria. Il suo obiettivo finale è quello di gestire e controllare la migrazione in linea con gli interessi politici ed economici dell’UE, implementando progetti di sicurezza delle frontiere nei Paesi terzi. L’introduzione del CEAS rappresenta un ulteriore passo verso l’espansione dell’influenza e delle operazioni di questo settore.
Il mercato della sicurezza delle frontiere sta vivendo una crescita significativa, con un’espansione annuale stimata tra il 7,2% e l’8,6%, che si prevede raggiungerà i 65-68 miliardi di dollari entro il 2025. L’Europa, in particolare, spicca con un tasso di crescita annuale previsto del 15%, soprattutto nei settori della biometria e dell’intelligenza artificiale (IA). In particolare, le aziende di armi europee, australiane, americane e israeliane sono state identificate come i principali beneficiari della crescita e dell’espansione di questo settore. In questo senso, è fondamentale notare che le politiche di esternalizzazione dell’UE non sono solo modellate dalle esigenze del mercato, in termini di acquisizione di lavoratori migranti qualificati e non, ma anche da attori che possono trarre profitto dall’espansione dell’industria e dagli ulteriori investimenti nella sicurezza delle frontiere.
L’aumento significativo degli investimenti dell’UE nell’esternalizzazione delle frontiere ha portato all’emergere di attori non statali, tra cui società semi-pubbliche e organizzazioni internazionali specializzate nella consulenza, nella formazione e nella gestione di progetti di sicurezza delle frontiere nei Paesi non europei. Questi attori non statali hanno prosperato grazie alla crescita dell’industria e hanno svolto un ruolo significativo nel plasmare gli sforzi di esternalizzazione dell’UE. Tra questi attori spiccano l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM), il Centro internazionale per lo sviluppo delle politiche migratorie (ICMPD) e l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera (Frontex). Tutte e tre le organizzazioni sono coinvolte nell’attuazione di progetti di controllo sul campo dei confini, come la formazione delle guardie di frontiera, le espulsioni, la creazione di reti di cooperazione internazionale di polizia tra gli Stati membri dell’UE e i Paesi terzi e l’acquisto di tecnologie di sorveglianza e di attrezzature di polizia per le agenzie di contrasto. Con i loro bilanci cresciuti esponenzialmente negli ultimi dieci anni, il nuovo CEAS promette di portare ulteriori benefici a queste organizzazioni.
Ciò che spesso passa inosservato, però, è che organizzazioni come l’OIM, l’ICMPD e Frontex non solo contribuiscono all’attuazione pratica delle politiche di esternalizzazione delle frontiere dell’UE, ma svolgono anche un ruolo cruciale nella creazione di un “regime di verità” coerente e accettato a livello internazionale sulle migrazioni, attraverso la produzione e la diffusione di conoscenze e informazioni, spesso inquadrate nel linguaggio dei diritti umani e dell’umanitarismo. Ciò è particolarmente importante perché, in assenza di accordi o leggi internazionali che regolino la mobilità attraverso le frontiere, la colonizzazione dei discorsi diventa cruciale per la legittimazione di politiche di frontiera violente.
Queste organizzazioni si impegnano in una serie di attività, tra cui la pubblicazione di rapporti e statistiche, l’investimento di risorse nelle pubbliche relazioni, la formazione di giornalisti nel Sud globale, la creazione di glossari sulla migrazione, la gestione di accademie dei media, il finanziamento di ricerche accademiche, la gestione di riviste accademiche e la partecipazione a dialoghi informali con le parti interessate del settore industriale, statale e non statale. Studiosi, giornalisti, politici e attivisti che si occupano di migrazione dipendono comunemente dai dati prodotti da queste organizzazioni, in particolare dall’OIM, che si posiziona come agenzia delle Nazioni Unite nonostante la mancanza di un mandato di protezione basato sui diritti umani e le notevoli carenze in termini di responsabilità e trasparenza. Le statistiche sulla migrazione prodotte da queste organizzazioni, in particolare, sono percepite come dotate di una notevole credibilità scientifica. Ma è importante riconoscere che i dati prodotti non sono intrinsecamente oggettivi o imparziali; sono modellati dalle scelte relative ai metodi di raccolta dei dati, alle categorie, agli indicatori e alle unità di misura. In quanto tali, le statistiche non riflettono semplicemente una realtà esistente, ma la modellano e la rafforzano attivamente. Inoltre, l’OIM, l’ICMPD e Frontex hanno un interesse finanziario acquisito nel produrre dati e conoscenze che sostengano e giustifichino il programma di esternalizzazione dell’UE, come delineato nel CEAS. Ciò rafforza ulteriormente la loro competenza nell’attuazione delle politiche di esternalizzazione delle frontiere e contribuisce alla continua crescita di questa industria, garantendo la loro rilevanza e il loro continuo finanziamento.
Data la realtà attuale, è fondamentale sviluppare delle controstrategie e adottare un nuovo linguaggio per affrontare efficacemente le complessità dei confini e della migrazione. Questo discorso deve andare oltre il quadro legalistico dei diritti umani e del diritto internazionale, che non solo manca di rilevanza, ma che ora viene anche manipolato dagli approfittatori per giustificare l’espansione dell’industria della sicurezza frontaliera. Per affrontare questo problema, è necessario un nuovo approccio che possa sfidare con successo il Sistema europeo comune di asilo (CEAS), resistere alla cooptazione da parte dell’agenda (neo)liberale e affrontare chiaramente la questione della mobilità disuguale e dello sfruttamento delle persone.
Questa strategia non deve limitarsi a mettere in discussione il concetto di frontiera e a chiedere il rispetto dei diritti umani, ma deve anche estendere la sua critica alle dinamiche di potere radicate all’interno degli Stati nazionali e al sistema mondiale capitalista, che rimane il motore principale di queste politiche. Infine, è importante riconoscere
che l’attuale sistema che genera la necessità di chiedere asilo non può (e non deve) essere considerato in grado di fornire le necessarie protezioni a chi lo richiede.
Manja Petrovska è una ricercatrice di dottorato che vive tra Amsterdam e i Balcani e studia le intersezioni tra controllo delle frontiere, neocolonialismo e imperialismo umanitario. La sua ricerca si concentra sull’industria della sicurezza delle frontiere e sulle razionalità neoliberali che danno forma alle politiche migratorie e di confine.