Educarsi al senso nel vuoto capitalista – parte 2

Alcune considerazioni al termine di una formazione collettiva sui principi del sapere e dei processi rivoluzionari secondo il nuovo paradigma della modernità democratica. Riceviamo e pubblichiamo questo report dalle persone che hanno partecipato ad un’educazione nel Nord Italia. In questa seconda parte vengono affrontate la Jineoloji e la pratica delle Malajin e di Jinwar. Gli ultimi tre paragrafi sono dedicati alla dialettica della Modernità e al Nuovo paradigma olistico del movimento.

5. Jineoloji
La trasformazione interiore ed esteriore dell’approccio alle scienze, e dunque alla realtà e alle verità che muovono gli orizzonti di senso e di significato dei popoli, parte dalla rilettura non secondo la linearità del potere, ma come un vortice assorbente e rimescolante delle geografie, delle culture, dei popoli, andando a ricostituire e sostenere quella che viene definita la “modernità democratica”, che si approfondirà in un secondo momento.
Quanto grava e ci limita l’influenza della corruzione culturale positivista; quanto ci alleggerirebbe sgravarci una nuova metodologia di ricerca che parta da altri presupposti? Osservando la storia del movimento curdo da una prospettiva autenticamente autonoma, dopo anni di costruzione di consapevolezza in costante guerra e senza uno Stato di riferimento, ogni villaggio ha creato la propria autodifesa come simbolo della propria autonomia. E’ il popolo che è direttamente coinvolto nell’autodifesa, con responsabilità chiave delle donne più anziane in ogni comune. Sulla base di questa forma di auto-governo, ogni aspetto della cura degli interessi collettivi è presieduta da un sistema di co-presidenza che con un sistema di grande circolarità delle figure rappresentati consente l’esercizio policentrico e tuttavia organizzato delle necessità amministrative, programmatiche e rimediali.
Lo spazio in cui confluisce poi questo humus politico e organizzativo è il Congresso nazionale del Kurdistan in cui tale complessità di rappresentatività è mantenuto da una composizione che riconosce e valorizza ogni segmento sociale chiave della società, ossia le etnie, le donne e le/i giovani.
Si arriva a ciò a partire dal lavoro di reale interiorizzazione e valorizzazione dell’amore e della fiducia come fattori primari di messa in discussione del sé socialmente assemblato dalla mentalità statale capitalista, uscendo quindi dal dogmatismo e raffrontandosi con il darsi spontaneo e orizzontale delle vicende sociali che riguardano tanto le persone più vicine, quanto quelle più lontane culturalmente o, per esempio, a livello generazionale. Questo meccanismo si sviluppa in molti anni di elaborazione ed esercizio nella risoluzione di problemi politici, strategici e programmatici di non poco conto: con l’assunzione, fin dalla nascita del Partito dei Lavoratori del Kurdistan, dell’analisi della personalità e dell’autoinchiesta come strumenti alla base della riconfigurazione in senso rivoluzionario del senso della vita delle persone in lotta per la rivoluzione in Kurdistan, le tecniche del sé partono immediatamente dallo sviluppo di percorsi individuali di messa in discussione che poi vengono trasposti e adattati ai piccoli gruppi, fino a permeare i centri di approfondimento, studio e risoluzione delle domande circa le verità generali. Per consentire questo ampliamento, il lavoro nella società contestualmente a quello che ogni individuo opera interiormente, rimane fondamentale. Con l’inizio della guerrilla, infatti, in modo peculiare e lampante la problematica questione della considerazione delle donne in alcuni settori della rivoluzione: sospetto, sfiducia e ostilità sono i sentimenti e gli atteggiamenti prevalenti nei loro confronti. Dal 1986 quindi ci si focalizza su questo problema, facendosi carico del ri-conoscimento del ruolo delle donne nella società a partire dalla discussione circa la sua condizione personale conducendo inchieste nelle famiglie dei militanti del PKK. Un anno dopo, con l’YJKV, le donne costituiscono il primo progetto di vita libera insieme, la jiyan azad, con lo scopo primario di creare in forma originaria una nuova formazione e nuove forme di sperimentazione sociale, scevre dalle influenze rilevate dalle auto-inchieste condotte nella società. E’ sulla base di questa iniziativa che poi nasceranno le unità armate delle donne libere. Ogni lavoro che accompagna questa progettualità rivoluzionaria peculiare è relazionato e i report si diffondono fino alle personalità più influenti della leadership.

Proprio per questo motivo, nel 1998, viene formulata e assunta la Teoria della Separazione (su cui poi si svilupperà la Teoria dell’uccisione del maschio dominante in cui, fondamentalmente, si propone l’immagine dello stesso come colui che sradica le spine difensive alla rosa – la soggettività libera, in particolare la donna-, mettendone in pericolo sia la bellezza, sia la sopravvivenza stessa. Uccidendo il maschio dominante con l’autodifesa ci si riappropria in un solo movimento delle spine e della bellezza costitutiva della personalità libera).
Ma con quale metodo ci si ristruttura e auto-difende? Con la nascita della teoria della separazione, si passa da una mera militanza integrale parallela a quella maschile a una vita nuova in ogni sua forma, con nuove forme di “guarigione” autonoma e di superamento dei fardelli della storia. Nel concreto, viene stabilita la necessità di un progetto politico di trasformazione esplicita e continua che prende il nome di “divorzio infinito”, molto diverso dal mero separatismo perché rivolto anzitutto a guarire il sé ri-conoscendolo in forma del tutto autodeterminata. Inoltre, il divorzio infinito è una pratica che dapprima si difende anche dagli uomini che in modo integrale esercitano, replicano e incarnano il pensiero maschile, patriarcale e della modernità capitalista, e poi li chiama a una responsabilità proattiva circa la loro doverosa presa in carico dei medesimi problemi sulla base dei nuovi presupposti configurati da questa nuova scienza (che è anche e soprattutto arte di vivere). Questo divorzio è poi anche territoriale, necessariamente nelle montagne disabitate per osservare da fuori ciò che è la modernità capitalista nella quotidianità degli inurbamenti. Solo con questa lontananza temporanea è possibile vedere chiaramente il sé per scomporlo e ricomporlo, in modo trasformato. In una parola, solo con questa distanza è possibile operare veramente l’uccisione del maschio dominante, ossia il maschio tradizionale costruito per infiltrarsi in ogni persona fin dalla nascita. Operando questa uccisione, in modo inversamente proporzionale diventa possibile la liberazione della donna, che diventa quindi pilastro costitutivo del paradigma rivoluzionario, addirittura antecedente allo smantellamento del sistema capitalista.
Ecco che dunque, a queste condizioni, le donne così riunite hanno potuto sviluppare il proprio lavoro di ricerca sociale collettiva che prende il nome di Jineoloji, indagando quelle che vengono definite le tre fondamentali rotture di genere secondo una mitopoiesi delle origini di cui poi, in ultima istanza, beneficia la società nel suo insieme, a ogni suo livello:

  1. Prima rottura: la società dello Ziqqurat fa perdere alla donna la sua centralità sociale e identità personale. Il discorso mitico stesso inferiorizza la donna e il femminile, diventando sempre meno soggetto e sempre più oggetto.

  2. Seconda rottura: le religioni monoteiste usurpano i saperi ancestrali tipicamente femminili e demonizzano le donne che li detengono e amministrano. La donna può essere, in questa visione, solo mera costola nel tessuto economico-sociale dell’impianto patriarcale.

  3. Terza rottura: il sistema industriale capitalista corrompe ancora il genere femminile riducendolo a merce del gioco del libero mercato.

Dalle ceneri di queste tre rotture storiche nasce la scienza delle donne per riconsegnare la dignità alle storie di resistenza anzitutto femminile che non hanno mai smesso di darsi e affermarsi malgrado le violentissime operazioni oppressive della storia. Costituire questa nuova storia, queste nuove verità, significa inserire nuovamente le donne come soggettività proattive nella società, così come ogni giorno le donne, scendendo dalle montagne, rientrano nelle case delle famiglie e portano la loro trasformazione nei nuovi atteggiamenti, dai più piccoli ai più significativi della quotidianità delle persone. Su questa prassi, individuale e sociale, si fonda il nucleo rivoluzionario del processo confederale, perché passa da questa forma di esempio concreto costante, ed è qui che si creano reali micce che poi spingono nuove persone a organizzarsi in modo diverso e a livello sempre più ampio e pervasivo, secondo la massima “Camminare nel presente con il passato davanti a noi” che ha permesso, sinora, di strutturare un’organizzazione solida, con princìpi per ora rimasti inscalfiti, e per questo realmente penetranti e trasformativi.

6. I cinque pilastri ideologici del movimento delle donne

  1. Amore e difesa del proprio territorio. L’elemento del territorio (sentito come proprio) è fondamentale per non rinchiudere le proprie analisi e i propri pensieri in una dimensione diversa dalla realtà. La ricerca di nuove verità, di nuovi modi di stare nella realtà, è possibile se ci si percepisce sempre in un territorio, ossia in un contesto animato da relazioni che trovano, o almeno ricercano, un reciproco soddisfacimento, una possibilità di reciproca autodeterminazione.

  2. Libera volontà. A partire dalla teoria della separazione volontaria per conoscersi nel profondo, riconoscersi e poi lottare con una proposta di lotta di senso e significato autentici. Se non c’è questo elemento, la lotta avverrà in balia del nemico e del ricatto del sistema, senza potersi dedicare integralmente all’impegno necessario per cambiare la società.

  3. Organizzazione. Autonoma delle donne, fondamentale anch’essa in un contesto di lotta per rendere effettivi i precedenti princìpi. C’è un cosiddetto “zaino pesante” che le donne, in modo specifico, devono condividere per risolvere alcune questioni sociali specifiche e sviluppare, sul loro superamento, modelli di vita libera insieme. In questi ambiti, dunque, le donne hanno autonomia organizzativa totale e totale libertà di iniziativa, che non può essere messa in nessun modo in discussione nei momenti misti.

  4. Lotta. E’ la forma di amore verso l’esterno, dalle altre vite umane e non umane del territorio. Questo insieme di relazioni da proteggere sono ciò che viene riassunto come bellezza da proteggere. Ed è per questo che la vita di lotta in nome della bellezza è integrale. La vita di lotta così definita, infatti, abbellisce integralmente anche chi la conduce ancor prima che essa produca benefici all’esterno, nella struttura ecologica e sociale. Guardando ancora a suggestioni della fisica, è come se si creasse una risonanza: ciò che fa stare bene una persona influenza positivamente anche chi la circonda. L’autocritica è la critica possono anche essere lette, dunque, come tecniche di questa difesa e costruzione della bellezza per agire anche una “manutenzione” della bellezza già conquistata.

  5. Etica-estetica. E’ ciò che riguarda l’attitudine della personalità militante all’interno e all’esterno della dimensione intima e individuale di ogni persona. E’ ciò che crea le basi di una fiducia trasversale che porta ad abbandonare i paradigmi della colpa e del giudizio per abbracciare quelli della crescita e dell’ispirazione secondo la critica e auto-critica. E’ ciò che produce, in un dato contesto sinergico di lotta, l’estetica collettivista anche esteticamente integrata, e dunque visibile e apprezzabile anche all’esterno. In altre parole, è ciò che poi produce una bellezza sociale tangibile, sensibile, di qualcosa di veramente trasformato. E’ ciò che rende convincente, in ultima istanza, le ragioni del necessario sforzo di liberazione che urge operare ovunque.

7. Il linguaggio della Jineoloji come nuova scienza.
Il problema nasce da subito indagando le scelte comunicative e i nodi focali dell’ideologia alla base dei processi di soggettivazione in corso in tutta l’esperienza rivoluzionaria curda. Per quanto riguarda la Jineoloji, si mantiene l’approccio ri-fondativo della scienza anche per quanto riguarda il suo linguaggio, concentrandosi immediatamente sull’etimologia del proprio lessico fondamentale. A titolo di esempio, parole come cultura, politica, democrazia, auto-organizzazione, civilizzazione, sono state tra le più studiate, riscoperte e ri-conquistate nelle ricerche di Jineoloji e non è affatto un caso che siano tutte parole che lette con lenti europee stridano parecchio se valutate come possibili alleate di narrazioni rivoluzionarie. Tuttavia, ben consce delle difficoltà interpretative e dei facili fraintendimenti possibili, chi scrive libri, trattati o scritti di ogni genere di Jineoloji introduce spesso un glossario con la spiegazione dell’operazione di recupero del termine e di come va letto all’interno della nuova scienza.
L’etimologia risulta dunque un potentissimo passo iniziale di ricerca per comporre l’insieme degli strumenti utilizzabili per la rinascita della scienza stessa, del reale e delle sue mutevoli verità e contro l’assimilazione contemporanea che rende ogni organismo mera articolazione di un potere dispotico.

Lavorando sull’etimologia, quindi, si creano le condizioni di possibilità dell’ancoraggio della liberazione delle donne attraverso la scienza delle donne, la quale può diventare vera e propria cultura da intendersi come norma comune di un popolo che sostiene la struttura di una società. E’ ciò da cui deriva il senso comune popolare creativo, non imbrigliato in confini rigidi né ha necessità di alcuna validazione esterna, tanto meno statale.
E sulla base di questo ancoraggio è dunque possibile immaginare l’auto-organizzazione (come capacità di definire principi autonomamente) e l’auto-governo (come capacità di curare interessi collettivi autonomamente).
Da qui deriva così l’idea di una ritrovata democrazia con cui riconoscersi e “fare pace”, così come il recupero della concezione della politica come spazio creativo di immaginazione e risoluzione dei problemi derivante da difformità di interessi e presenza di problemi.

Ancora, onde evitare fraintendimenti, vale la pena chiarire anche quale concezione si sviluppa del concetto stesso di donna nella Jineoloji: secondo un approccio costruttivista, la donna, come il giovane, sono ruoli sociali e le donne sono il centro della società naturale per l’autorità che hanno in base al loro ruolo sociale, alla loro socializzazione. Dunque, la divisione tra donne e uomini non è su base biologica, ma sul ruolo sociale e la differenza di mentalità. Anche la valorizzazione della maternità ad esempio attraverso la riscoperta dei culti delle dee madri corrisponde alla valorizzazione sociale delle pratiche di cura della società che sono tradizionalmente svolte dalle donne. Non si tratta di relegare le donne alla sfera domestica, ma si tratta di capovolgere la scala dei valori e mettere la cura della comunità al centro della società. Non è un caso, quindi, che nei villaggi in cui si vive in comune, le donne abbiano il ruolo di trasmissione di conoscenze legate all’ambito della riproduzione biologica, della medicina legata alla conoscenza dei cicli naturali, dell’educazione, dell’agricoltura, dell’arte e della spiritualità, configurando tutte queste branche di sapere come assolutamente rivoluzionarie e coerenti con un pensiero indubbiamente femminista.

8. Il Funzionamento della giustizia riparativa delle Malajin.
Il precipitato concreto, vivo di tutto ciò all’interno della società emerge in modo paradigmatico nell’esempio delle Malajin. Esse sono case situate, appunto, in ogni comune, con l’obiettivo di dare appoggio e non mero aiuto. Le Malajin sono gestite da donne militanti che dedicano il loro impegno quotidiano nella costruzione di processi di trasformazione della società a partire dalle “patologie” specifiche della stessa. A livello pratico, essa opera a partire da una segnalazione o vera e propria denuncia del problema di una donna. A questo punto, il meccanismo di risoluzione del conflitto parte dal principio che esso è onere della collettività di riferimento nel suo complesso, e perciò attraverso donne autorevoli e riconosciute la collettività entra nelle case, nelle famiglie per operare immediatamente alla radice del problema, senza intermediazioni, scardinando le dinamiche esclusive della famiglia nucleare e rendendo possibile tutto il percorso successivo di trasformazione collettiva. Dopo il primo incontro, infatti, ne seguono molti per porre interrogativi alla persona ritenuta responsabile di certe condotte inique. Agli interrogativi seguono ancora confronti in cui l’uomo può porsi in dialogo o opporre resistenza e chiusura. Solo e soltanto in caso di rifiuto totale o reiterazione degli atteggiamenti problematici, si assume il disconoscimento da parte dell’uomo delle pratiche rivoluzionarie e pertanto l’unica pratica che residua è quella dell’arresto e del procedimento giudiziario cui seguirà una specifica rieducazione obbligatoria. Essa è comunque strutturata da persone del territorio, che ne conoscono le specificità e le caratteristiche chiave per velocizzare efficacemente i processi di recupero. Grazie alla giustizia riparativa delle Malajin, comunque, l’80% delle controversie di risolve prima dell’arrivo in tribunale, e anche qualora si arrivasse a dare esecuzione ad alcune sentenze giudiziarie, esse sono comunque riesaminate con intervalli temporali molto ristretti al fine di adattare i provvedimenti al concreto percorso che la persona in errore sta conducendo per migliorare e reintegrarsi.

9. Il villaggio di Jinwar
Sulla scorta di queste implementazioni infrastrutturali fuori e dentro la società, vi è ancora un esempio finale che rappresenta forse l’integrazione della pratica del divorzio infinito e il permeare integralmente la società al punto da fondarne una totalmente nuova. In mezzo a campi di grano in Rojava, a pochi chilometri dai luoghi in cui le milizie dello Stato islamico (ISIS) erano solite decapitare, nasce nel 2018, nello specifico il 25 novembre, Jinwar, un villaggio costruito e abitato da sole donne. Un luogo di rifugio per loro: madri con bambini/e che hanno perso i loro compagni nella guerra, donne che hanno subito violenze, donne che vogliono fuggire dalla società e donne che vogliono condividere le loro vite solo con donne e per tutte le donne del mondo.
Jinwar è un progetto unico in Medio Oriente. È il lavoro collettivo di decine di associazioni, organizzazioni per la difesa dei diritti delle donne e della cooperazione tra l’amministrazione autonoma del Rojava e gruppi femministi. All’inizio del 2016, è stato formato un comitato in cui molte organizzazioni hanno iniziato a presentare i loro piani e idee riguardanti la creazione di Jinwar. Il 25 novembre dello stesso anno si decise di iniziare il progetto.
A seguito di uno studio in una riunione del consiglio di Jinwar realizzata con ingegnere/i, geografe/i, geologhe/i e architette/i, è stato sviluppato il progetto di costruzione del villaggio di donne. L’infrastruttura del villaggio è basata su prodotti naturali: terra, fango, paglia e legno. Inoltre, si utilizzano metodi alternativi per ottenere elettricità, servendosi di energia rinnovabile, principalmente l’energia solare.
Jinwar ha dei luoghi che offrirono servizi di base alle residenti del villaggio: c’è uno spazio d’immagazzinamento, una scuola, una cucina comune, una libreria, un forno, un negozio di frutta e verdura, una sala espositiva e un parco. Successivamente verrà costruito un museo nel quale saranno esposti pezzi realizzati artigianalmente da donne e tutto ciò che è legato alla storia della lotta femminista. Le donne a Jinwar lavorano nei campi, ricevono corsi di formazione, sono loro che preparano le medicine naturali a base di erbe e che istruiscono i bambini nella scuola del villaggio. Inoltre, ovviamente, sono loro a vigilare il villaggio durante la notte.
Infine, è presente anche un’Accademia in cui si offrono lezioni su argomenti di interesse generale: metodi di vita comuni tra le diverse minoranze e gruppi etnici, l’economia naturale distante dall’etica del profitto, l’autodifesa, le scienze e la medicina alternativa.
Quali prospettive da un villaggio simile, per lo sviluppo di prassi rivoluzionarie nuove e più ambiziose? Un fenomeno interessantissimo legato al villaggio, già presidio di autodifesa e autodeterminazione per donne necessitanti di uno spazio fortemente sicuro e libero da violenze, trascorsi e mentalità spesso brutali, è il fatto che figli di sesso maschile in età infantile hanno avuto la possibilità di crescere nel villaggio con le proprie madri fino al raggiungimento dei sedici anni di età. Ciò ha portato, in questi primi anni di vita del villaggio, a far sì che alcuni uomini crescessero di fatto in un mondo scevro dalla mentalità patriarcale e dalla modernità capitalista, ritenendo meritevole la valutazione delle donne del villaggio di prolungare la possibilità di permanere nel villaggio anche in età adulta (fino ai venticinque anni) per alcuni uomini cresciuti a Jinwar, sia di poter veder crescere in forma libera nuove mascolinità non intossicate dalla costruzione sociale del maschio patriarcale dominante. Dal punto di vista pedagogico e rivoluzionario, sarà sicuramente materia di grande interesse interfacciarsi con queste personalità per apprendere e confrontarsi alla luce delle peculiarità che essi, anche solo a livello meramente esperienziale, incarnano, distinguendosi così da ogni altro coetaneo presente o passato che ha dovuto, da posizioni molto differenti, per configurare, nel quadro mutevole di una scienza libera delle donne in fortissimo e costante fermento, un nuovo, enorme sapere che spinga ogni essere umano a ripensare l’umanità stessa secondo traiettorie della storia radicalmente originali.

10. Ritorno al futuro: le traiettorie della modernità democratica
Nel corso dell’intera formazione e del presente testo si è fatta menzione più volte di una locuzione ancora non definita, di cui ora è giunto il momento di chiarire il senso e l’utilità per chi voglia comprendere a fondo le ragioni di una vita secondo i principi dell’etica rivoluzionaria. Lungi dall’essere un costrutto elaborato accademicamente in vitro, la nozione di modernità democratica è frutto di un’elaborazione di cinquant’anni di lotta ed esperienze di esseri umani praticate come resistenza a diverse forme di dominio. Se ancora ci fossero dubbi sul perché non si adottino categorie sociologiche già affermate a livello internazionale, è bene chiarire che esse non inquadrano, dal punto di vista dei principi del confederalismo democratico e della scienza delle donne libere, alcun problema storico e sociale in modo efficace, poiché è persistente il gravissimo rimosso di quello che viene chiamato “fiume della resistenza, della democrazia”, peccando così di una visione deterministica della storia stessa. Secondo la visione critica della storia rivoluzionaria, si deve immaginare il corso degli eventi come sviluppato in due fiumi: uno è quello che ha assunto i connotati della modernità capitalista, uno è quello che conduce alla definizione di modernità democratica. Queste due dimensioni degli sviluppi storici sono tra loro in rapporto dialettico, ma nel quale la dottrina dello Stato (propria della modernità capitalista), ha prevalso a tal punto da oscurare completamente l’altro fiume dalle narrazioni. Modernità, d’altronde, significa semplicemente “ciò che appartiene al presente”, indica il modo di vivere, la cultura materiale e immateriale di un dato periodo storico – tutte le epoche sono state moderne a loro tempo. Sarebbe quindi un errore attribuire la modernità esclusivamente al capitalismo, perché molti suoi elementi sono decisamente opposti ad esso. Infatti, la modernità democratica e le sue ragioni non hanno mai smesso di fluire nel corso degli eventi, nella storia delle civiltà e ancora oggi il corso della modernità democratica prosegue malgrado la violentissima operazione ideologica che ha portato l’essere umano a credere di non poter vivere senza lo Stato.

Ma quali sono le caratteristiche emblematiche di questi due fiumi? Che cosa li pone in questo rapporto dialettico?

  • Modernità capitalista: è fondata sulla matrice patriarcale come modo disciplinante (iniquo) dei rapporti di potere (dominio) sociali. Su questa matrice si erigono i suoi tre pilastri: capitalismo, industrialismo e centralità ordinatrice dello stato-nazione. Il capitalismo è il sistema di accumulazione ed estorsione del surplus socialmente prodotto da parte di un monopolio che ha il potere di utilizzare le organizzazioni, la tecnologia e la violenza al fine di mantenere il proprio dominio. In questo senso il capitalismo europeo degli ultimi quattro secoli, per quanto singolare nella forma di egemonia e negli effetti prodotti, condivide gli stessi caratteri fondanti rimasti essenzialmente immutati da cinquemila anni. L’industrialismo è la cifra ideologica dell’industria nella modernità capitalista. L’industria di per sé è sempre esistita in diverse forme storiche ed è uno sviluppo utile alla società per la propria riproduzione. Tuttavia laddove venga messa al servizio della legge del massimo profitto quale elemento fondamentale per il continuo accumulo di potere, diventa una delle principali cause di ricorrenti crisi economiche, sociali e ambientali. Infine, lo stato-nazione, con i suoi apparati, è la fondamentale forma del potere finalizzato alla sottomissione e colonizzazione della società. Nello stato-nazione i monopoli commerciali, industriali e finanziari si riuniscono e coordinano per accumulare capitale. Per mantenere la propria egemonia utilizza quattro forme ideologiche: nazionalismo, positivismo, sessismo sociale, religione.

  • Modernità democratica: è anzitutto un processo che pone al centro una costante trasformazione (rivoluzione) di mentalità; da questa impostazione si produce una società politica e morale, dove per politica di intende la consapevolezza sociale delle proprie necessità e per morale la volontà di preservare valori e principi specifici come la solidarietà e la vita in comune. Dove questi elementi sono forti, le leggi e lo Stato sono sostanzialmente indeboliti e inutili. Dal punto di vista produttivo, poi, si pone al centro l’eco-industria, ossia l’organizzazione per la produzione di beni e servizi complessi per soddisfare bisogni ecologici, con una attenzione particolare alla costruzione e “manutenzione” di un rapporto sinergico e sanante tra città e campagna. Il terzo pilastro della modernità democratica, infine, è rappresentato dal confederalismo democratico stesso non come stato alternativo, ma come vera e propria alternativa allo stato. Questa alternativa risponde a tutte le necessità culturali standoci dentro e senza negarne le specificità, praticando ovunque queste nuove meccaniche democratiche che sono già attuali e non restano utopiche. A questo punto lo Stato può soccombere senza difficoltà, riaprendo così la Storia che dunque non finisce.

Come incrementare, dunque, la conoscenza circa la modernità democratica in opposizione all’eurocentrismo delle scienze sociali figlia della modernità capitalista?
Anzitutto, comprendendo come agisce e si insidia l’approccio eurocentrico alle scienze sociali: il metodo primario è quello già visto sin dall’introduzione del presente scritto, ossia una educazione mirata alla distruzione della personalità al fine di creare automi funzionali alla riproduzione e perpetuazione del sistema capitalista. In questo contesto, anche chi vuole superare e distruggere lo Stato come obiettivo tattico di progetto rivoluzionario, si trova in definitiva ad adottare, più o meno consapevolmente, gli stessi schemi introiettati dalla mentalità del nemico. Ciò è frutto, vale la pena ribadirlo, dall’egemonia culturale monopolizzata dalla mentalità capitalista.
Un esempio di come procede questa omogeneizzazione stratificata in azioni violente, aggressive e più subdole, è il genocidio armeno perpetrato dalla Turchia per creare forzatamente la piena corrispondenza, in senso nazionalista, dell’equazione “uno stato, una e una sola nazione”. In altri casi, più insidiosi, la pulizia etnica opera con politiche demografiche diverse, per esempio nella guerra diplomatica sulle frontiere politiche. Si pensi, ancora, alla “pulizia culturale” di Mustafa Kemal e alla sua politica di repentina omologazione identitaria secondo una matrice eurocentrica che nulla aveva a che fare con il tessuto sociale turco e la sua complessità etnografica, riconosciuta e studiata poi dagli europei stessi con un approccio ulteriormente colonialista ed esotista, attraverso studi storici che imponevano di idolatrare le virtù delle radici identitarie europee per compatire o feticizzare, specularmente, tutto ciò che ribolliva fuori da questa cornice.

Tutto questo è stato messo a sistema, problematizzato e criticato alla luce dei massacri ai danni delle curde e dei curdi a Dersim nel 1938. Questo evento tragico è il colpo di reni politico che, malgrado le violentissime rappresaglie turche, rappresenta senza dubbio il rinvigorimento deciso del fiume della modernità democratica. Sebbene alla sua repressione siano seguiti decenni di silenzio sul tema, è proprio riprendendo questo evento, quarant’anni dopo, che il movimento rivoluzionario ricomincia a parlare di “Kurdistan”. Con questa parola se ne liberano anche molte altre, offrendo la possibilità di produrre e comprendere nuovi contenuti, una nuova Storia e una nuova conoscenza. Si abbandona l’auto percezione di essere un “medio-Oriente” dell’impero britannico, riappropriandosi di storia e identità del territorio proprio facendo vivere e respirare il tessuto sociale del territorio stesso. Non è un caso, infatti, che in altre zone del mondo simili la trasmissione di questi saperi alternativi rimangano, con lo scopo di proteggerli, segreti e trasmessi segretamente per evitare la fagocitazione o feticizzazione da parte del mondo capitalista. Parallelamente, poi, si adottano anche strumenti più aperti a una circolazione di medio e ampio raggio come i libri, i film ecc, privilegiando tuttavia modelli pre-moderni di trasmissione del sapere come, per esempio, il discorso mitologico per coltivare la memoria sociale non scritta.
Cambiando il modo in cui la conoscenza viene prodotta, conservata e trasmessa, si cambia la struttura della conoscenza stessa.

11. La nuova struttura della conoscenza
Essa prende le forme di una conoscenza necessariamente olistica del reale, in opposizione radicale al modo positivistico eurocentrico di produzione del sapere che è filosoficamente improntato al modello tedesco, economicamente improntato al modello inglese e sociologicamente improntato al modello francese. Criticando questi tre pilastri culturali europei, si superano diversi errori, il primo dei quali è quelli in cui il marxismo stesso cade quando adotta il metodo dialettico della modernità capitalista stessa in cui, secondo un’impostazione meccanicista, la divisione soggetto-oggetto, anima-corpo, si oggettiva ogni aspetto conoscibile, distorcendolo. Non a caso, le scienze umane derivare da questa impostazione oggettivano la società stessa per studiarla, creando così letture liberali che prestano, in ultima istanza, il proprio fianco al fascismo, come storicamente è successo in Europa e, da una prospettiva mediorientale per esempio è accaduto con il successo di Daesh in quei Paesi occupati e forzatamente pacificati da una mentalità neo-liberale incapace di resistere alla sua tendenza di riduzione a oggetto della società, nei quali la fortissima frustrazione ha prodotto una forma ancora più terribile di soggettivazione politica sotto il braccio ideologico e armato del fondamentalismo islamico.
Di contro, la struttura democratica della conoscenza previene ogni tendenza al monopolio culturale e favorisce la circolazione e ridistribuzione continua del sapere e della competenza. In questo senso, le accademie e i centri del sapere devono essere molto diversi da quelli istituzionalizzate nelle società liberali, attraverso un preciso lavoro di costruzione di strategie sociali militanti di vocazione internazionalista, fatto da internazionaliste/i. Adottare, in questi processi, lo stesso schema operato nei processi rivoluzionari con la Jineoloji, partendo quindi dal pianto individuale e inter-individuale, dall’auto-inchiesta con metodo critico e autocritico, per poi arrivare alla costruzione sociale delle conoscenze e delle verità.

Questo lavoro è finalizzato a produrre il tipo di cultura rivoluzionaria che fa emergere la modernità democratica sviluppata attorno ai tre pilastri sinteticamente riassunti in: creare una rivoluzione della mentalità (morale, etica e politica), sviluppare una nazione democratica autorganizzata (confederalismo democratico), produrre per le necessità della società e non per il profitto (eco-industria).

L’approccio deve essere sempre e soltanto calato nella società, nei suoi movimenti e tensioni viventi, senza inventare nulla, con un approccio intersezionale e integrato dei pilastri della modernità democratica e con sguardo sociologico a essi coerente. Da qui diventerà possibile immaginare senza sforzo infrastrutture non centraliste, di matrice non statalista. Con chi cominciare a farlo, quando? Esiste un momento opportuno? No, il momento è sempre opportuno e le persone con cui farlo sono quelle che vivono la società in cui viviamo, scansando così un approccio deterministico (e illusorio) dei processi politici, per abbracciarne uno probabilistico che costruisca e sperimenti metodologie, strumenti e soluzioni per arrivare poi pronte/i con soluzioni funzionanti al momento delle grandi occasioni trasversali. Il successo del movimento di liberazione curdo non è stato altro che procedere in questo modo, facendosi trovare pronto alle occasioni che, per corsi complessi degli eventi, si presentavano nella Storia e nella società. Più precisamente, per approccio probabilistico si intende la proposta tattica consistente nello spargere fattori di incremento del potenziale di lotta e resistenza democratica, con il preciso scopo di aumentare il grado di preparazione sociale nel momento del bisogno e della crisi.

12. Conclusioni
Se, da una parte, non ci si può in alcun modo aspettare di formarsi ed educarsi alla rivoluzione come ci si approccia a un corso professionalizzante per l’inserimento lavorativo, sicuramente delle direttrici utili a comporre un ordine di senso e si significato della lotta rivoluzionaria emerge, e lo fa in modo deciso. Anzitutto, lavorare nella società coabitando nella società capitalista, costruendo, parallelamente, collettività autonome e, dove necessario all’autodifesa, combattendo militarmente. Le infrastrutture politiche per imbastire tattiche coerenti nell’orizzonte strategico sono l’implementazione di forme di vita libera in comune all’insegna della pace e della giustizia, con un approccio politico a ogni problema della vita sociale fondato su una conoscenza autonoma, autodeterminata. Ancora, è necessario un solido apparato diplomatico internazionalista rivolto verso l’esterno, e un serio lavoro di costruzione dell’autonomia economica (in cui è compresa l’autodifesa) verso l’interno. Questo lavoro è realizzabile solo se condotto da personalità militanti personalmente e collettivamente ricostituite come tali, con la consapevolezza però che militanti non si nasce, ma ci si educa a esserlo. Queste personalità potranno poi infiltrare le crepe del capitalismo, creando interdipendenza sinergica e proattiva tra le forze inerti della società atomizzata dal capitalismo. Con questo mutuo appoggio “nelle crepe”, nascono non più mostri dei chiaroscuri, bensì vite libere capaci di costruire reali alternative autonome solide. Capaci di costruire le rivoluzioni e gli esercizi di vita libera di cui tutto il mondo ha incessante e sempre più urgente bisogno.