Educarsi al senso nel vuoto capitalista – parte 1

Alcune considerazioni al termine di una formazione collettiva sui principi del sapere e dei processi rivoluzionari secondo il nuovo paradigma della modernità democratica. Riceviamo e pubblichiamo questo report dalle persone che hanno partecipato ad un’educazione nel Nord Italia.
In questa prima parte vengono affrontate la critica dell’educazione in Occidente, l’alternativa del paradigma democratico e i meccanismi di critica e autocritica.

0. Perché educarsi a vicenda?
In curdo, il termine utilizzato per indicare le esperienze di educazione collettiva come quella che danno ispirazione a questo testo, è perwerde, letteralmente “dare le ali alle persone”, dunque dare loro autonomia. E’ una concezione dell’attività educativa che solo in parte risuona nell’uso e nell’abitudine delle nostre vite in Occidente, più spesso caratterizzate da lunghi periodi di inattività e disarmo servente in favore di chi è deputata/o a “erogare” sapere e costruire, se necessario forzatamente, una vera e propria mentalità omogenea in qualsiasi individuo.

Le agenzie educative preposte a tale compito, in Occidente, si rifanno tutte alla matrice della famiglia nucleare e si sviluppano, sul piano istituzionale, nei tentacoli della scuola e del non-luogo di lavoro, o del passatempo a pagamento. La matrice di questa “industria della mentalità dominante” è, abbiamo detto, la famiglia. Più precisamente, si parla della famiglia come forma elementare di stato patriarcale e gerarchicamente ordinato. Il formante del modo relazionale del dominio, subìto o agibile, è immediatamente introiettato e imposto dalla nascita. A scuola, poi, si imparano le tecniche della competizione tra pari. Il senso di comunità è annichilito, così come quello dell’amicizia spontanea. La prevaricazione pervasiva induce a maneggiare abilmente i fondamenti della mentalità capitalista fin dalla più tenera età. In modo inversamente proporzionale, l’istinto a socializzare e condividere è invece inibito, favorendo l’emersione di forme relazionali prioritarie e differenziali. Ancora, in ogni fase successiva dello sviluppo il sistema egemonico agisce e colpisce sempre più violentemente per annichilire la spontanea tendenza al collettivismo.

Per questo motivo, dunque, il primo passo per smantellare questa coltre opprimente è quella di ri-conoscersi, secondo l’antica massima “conosci te stesso”. In questo senso è utile ritirarsi, in qualsiasi fase della propria vita, anche quella apparentemente più matura e solida, con nuove compagne e compagni, in posti tranquilli, per sicuramente più giorni di riscoperta, sperimentazione ed esercizio fisico, mentale e politico con l’obiettivo di scambiare strumenti e pensieri che mettano nuove ali. Con questo spirito nasce l’educazione che ha dato vita a questo scritto, il quale, senza velleità, tenterà di raccogliere gli stimoli e le conoscenze condivise, ponendo un particolare accento alle domande e ai nodi critici fondamentali che come persone in lotta (con noi stesse/i e con tutte le forme di dominio contemporanee) abbiamo rilevato, discusso e inserito nell’orizzonte dei problemi teorici e pratici cui dobbiamo trovare risposta, da subito, per un presente libero insieme.

1. L’educazione familista del nemico.
Un esercizio di cinquemila anni. L’educazione assume le forme del disciplinamento da quando il patriarcato è stato istituzionalizzato come primo pilastro dei sistemi di dominio da imporsi in tutte le organizzazioni sociali, da almeno cinquemila anni. Il patriarcato è dunque una forma legale di ordinamento sociale, che passa per il legame e il vincolo forzato con corpi, spazi, princìpi, doveri predeterminati, con l’obiettivo di creare una catena verticale di legittimazione all’espressione del potere in favore dell’archetipo del maschio adulto dominante. Il primo gesto di rottura è quello di pulire – riformandoci – i modi che abbiamo di introiettare e performare questi meccanismi che ereditiamo dalla nostra storia, così da poi poter costruire una rinnovata, libera, mentalità, che altro non è che una rinnovata, necessaria, lotta per recuperare ciò che è stato corrotto da cinquemila anni a questa parte.

A tal scopo, diventa utile perciò prendere in considerazione studi teorici e riflessioni collettive che intervengano nei punti nevralgici dei pilastri su cui si fonda questa nostra mentalità dominante, capendo quali elementi sono maggiormente efficaci nell’opera, necessaria, di corrosione, scardinamento e sostituzione valoriale per favorire così il recupero e lo sviluppo di filosofie, pedagogie, culture, tradizioni, rituali e forme di vita realmente libere. Come si vedrà più dettagliatamente nel corso di questo scritto, il contro-esercizio principale che concretamente è stato sperimentato a partire da questo assunto, prende il nome di pratica della “critica e autocritica”: tramite questo sistema che verrà approfondito di seguito, con questa pratica si può agire a tutti i livelli di infiltrazione della mentalità capitalista (dal quotidiano al permanente, dall’individuale al collettivo), per verificare e valutare di volta in volta, collettivamente, cosa sfoltire e cosa, invece, valorizzare di ciò che ci costruisce come personalità e organizzazioni della società contemporanea. Alla luce di questo lavoro, insieme a una lunga e profonda messa in discussione immediatamente pratica e teorica, emergono sistematicamente tanto elementi della nostra personalità e dei nostri retaggi socio-culturali accettabili, che pertanto si recepiranno e valorizzeranno; tanto elementi invece critici, che andranno osteggiati diventando così motivo deciso di lotta individuale e collettiva. A partire da questi primi risultati, poi, si ricaveranno quelle connessioni che, nella storia, hanno portato le singole soggettività soggiogate a costruire una intera tradizione delle forme di dominio, oppure, in casi non meno significativi, esempi di forte autodeterminazione e difesa di principi ed esperienze sociali di liberazione e profonda democrazia. Questo sforzo complessivo (che va dal particolare al generale e viceversa) genera qualcosa che, certamente, può stridere, ma che muove chi è in cammino su piste incerte: la speranza. E la speranza riporta nell’orizzonte l’educarsi alla possibilità. A partire da qui, ogni scenario prende vigore tramite una riscoperta autonomia in ogni soggetto e ogni soggetto potrà contribuire a una nuova autodifesa ideologica, che è anzitutto ideologia autodeterminata.
Ma perché focalizzarsi su questo aspetto? Perché leggerlo come atto importante di un processo di liberazione? Perché non temerlo come punto di debolezza che tradirà qualsiasi reale tentativo di processo rivoluzionario? La risposta che viene offerta, all’inizio del percorso di formazione collettiva, è una mera indicazione di ordine generale: ogni rapporto o azione ha una carica ideologica, implicita o esplicita, e nelle formazioni c’è la possibilità, oltre che di rendersi conto di ciò, di chiarirsi e informarsi sui contenuti ideologicamente determinati a più livelli di complessità, a partire dalle più ristrette forme di vita comunitaria fino alle forme rivoluzionarie di autorganizzazione, studio e produzione di cultura e analisi militante che le persone in lotta hanno prodotto e stanno producendo, così da poterla meglio gestire e, collettivamente, proteggere. Difendere l’ideologia non significa quindi porsi in una condizione servile di una nuova forma di dominio, bensì difendere consapevolmente e responsabilmente la propria lettura della realtà da cui discendono le ragioni della propria lotta.

2. Letture autonome della realtà e il nuovo regime di verità.
Ma si può parlare, da una prospettiva rivoluzionaria odierna, di costruire un nuovo regime di verità per autodeterminare e difendere la propria lettura della realtà?

La risposta è affermativa nella misura in cui l’essere umano, in quanto animale sociale, è in continua connessione con il circostante, già a partire dai propri bisogni fisiologici e dalla sua tensione istintiva a soddisfarli, per poi arrivare agli strati delle intelligenze proprie e altrui. Qui si creano complessi sistemi di forze che portano comprensioni diversissime, le quali portano le persone a dover comporre la verità in modo sociale, condividendo necessariamente ciò che ciascun essere vivente da solo riesce a fare. Il presupposto di questa dinamica è che ogni visione, interpretazione, suggestione, merita di essere ascoltato pur però assumendo che non sarà completa, né da sola risolta. E’ proprio questa consapevolezza di avere qualcosa di peculiare da dire, ma che allo stesso tempo non sarà definitiva, che porta alla spontanea condivisione dei saperi e al loro interpolarsi.

Con una simile costruzione sociale della verità, allora si potrà produrre una tensione al significato non frustrata, e dunque libera, al rapporto quotidiano e automatico con la realtà. Una realtà, potremmo dire, in questo senso arricchita e completata, in ultima istanza, dall’attività interpretativa, cosciente e autocosciente dell’essere umano autodeterminato. Libero. Un regime di verità, in quest’ottica, non è altro che il complesso di significati che imprimiamo socialmente alla realtà per come la conosciamo. Se conosciamo la realtà in modo libero, allora, la significheremo in modo libero. Se la significheremo in modo libero, la difenderemo liberamente, come atto di autodeterminazione progressivo, e non dovremo invece difenderci da essa, come atto di sopravvivenza conservativo/involutivo. Una ulteriore implicazione di questo approccio libero alla determinazione sociale della verità è che essa non sarà mai definitiva nello spazio, nei contesti e nel tempo, ma va negoziata la ricerca della stessa coerentemente con l’obiettivo di chi cerca questa o quella nuova verità al fine di costruire questa o quella società, basata sugli uni o sugli altri principi.

Più nel concreto, sono stati sviluppati metodi le cui pratiche sono coerenti con gli obiettivi e con i principi, orientandosi con ciò che abbiamo appreso dalla storia e dagli antichi regimi di verità che hanno avuto successo e, allo stesso tempo, hanno a seconda delle fasi storiche accelerato o oppresso il fisiologico progredire dell’esercizio di vita libera dell’umano nei secoli.

  • Insegnamento dal Totem: ciò che si comprende può essere condiviso se inscritto in una simbologia;

  • Insegnamento della Mitologia: il senso che si apprende va arricchito di significato, spiegando dunque le cause e i fini della realtà tutta. Lo Stato stesso, come modello di organizzazione sociale, nasce servendosi del discorso mitologico;

  • Insegnamento dalle Religioni: la mitologia, troppo legata alle comunità viventi, si evolve in un complesso di principi che non spiegano più la realtà e non hanno un necessario legame con essa. Esempio chiave è quello di Abramo, che distrugge gli idoli pagani per svincolarsi dal giogo che le divinità mitologiche stringevano sulle comunità umane. Tuttavia, l’assorbimento delle religioni da parte della mentalità statalista e dispotica hanno portato le religioni stesse a un rafforzamento ulteriore della capacità complessiva di organizzare la politica secondo forme di dominio anziché forme di liberazione e cooperazione collettiva;

  • Insegnamento dalla Filosofia: si differenzia dal pensiero religioso perché accetta la dimensione metafisica integrata da quella fisica. Questa compenetrazione contribuirà molto allo sviluppo del pensiero scientifico, che tuttavia verrà distorto dal meccanicismo e dal positivismo, incentrati su una predominanza esclusiva del razionalismo come principio ordinatore dei rapporti sociali e del destino del vivente. Le scienze sociali più recenti come l’antropologia e la sociologia non scampano a queste storpiature, in quanto intrinsecamente connotate da matrici coloniali che producono, con riferimento alle società oggettificate e studiate “in vitro”, un rafforzamento del pensiero dominante e del metodo della ricerca che lo sorregge che ha alla base il principio inscalfibile della necessaria e netta separazione tra soggetto e oggetto.
    Per queste ragioni, il pensiero positivista è oggi non difforme da come il pensiero religioso operava in epoca feudale.
    Che approccio avere, oggi, per la scienza libera di cui abbiamo bisogno al fine di costruire e difendere le nostre verità sociali?

La fisica quantistica offre una suggestione metodologica per reimpostare un metodo generale, che consiste nel considerare come coesistenti queste tre dimensioni della realtà, definite anche “natura”.

  1. Prima Natura: l’ecosistema biologico nel suo complesso
  2. Seconda Natura: l’essere umano come società, ossia coscienza collettiva
  3. Terza Natura: La coniugazione biologica, di senso e di significato delle due sfere precedenti

Seguendo la suggestione della fisica quantistica, non possiamo pensare ai quark senza pensare all’universo e viceversa, con delle dualità in dialogo che però non possono e non devono essere opposizioni in conflitto, bensì difformità di un reale in costante mutamento.

A partire da ciò è possibile allora fondare un approccio sano alla dialettica in cui la sintesi di qualsiasi processo sia veramente integrativa della tesi e delle negatività trasformative apportate dall’antitesi. In questo senso, dunque, la sintesi da concepire in un qualsiasi processo non potrà mai essere soltanto la mera distruzione di un polo tra la tesi e l’antitesi.

In termini politici, si vede come la civiltà democratica può essere un buon esempio di sintesi che si costruisce e si genera nei momenti di crisi, in ottica però progressista e non in ottica reazionaria (in cui altrimenti si genererebbero le forme di sintesi non accettabili da un’ideologia rivoluzionaria secondo i principi della modernità democratica).
Il lavoro di un movimento rivoluzionario rinnovato è, in conclusione, quello di saper andare indietro e ricercare ovunque e in ogni tempo il meglio e le verità che sopravvivono liberamente, al di là di ciò che si combatte, al fine di tracciare una linea per trovare basi comuni a tradizioni ed esperienze diversissime componendo la verità contemporanea in modo autenticamente derivato e, contestualmente, innovato. Ecco, quindi, cosa regge il nuovo paradigma rivoluzionario come sintesi; ecco, quindi, cosa sta alla base delle tecniche organizzative rivoluzionarie del sé e delle formazioni sociali proprie delle regioni autonome del Kurdistan in cui si vive secondo i principi del confederalismo democratico.

3. La possibilità di costruire il confederalismo democratico in Europa.
Le difficoltà e la fame di praticità delle proposte in Occidente.

Prima di procedere, è bene riconoscere che queste premesse sembrano suggerire un recupero di lessico, di categorie filosofiche e proposte politiche in gran parte esperite dalle società occidentali in passato e spesso tradite da degenerazioni sistematiche attraverso formanti culturali iniqui e personalità carismatiche accentratrici o dispotiche. Per queste ragioni, da subito, diventa difficile non prendere le distanze da alcuni postulati o vocaboli che stanno alla base stessa della concezione della storia, dell’individuo, della proposta rivoluzionaria del confederalismo democratico stesso. Verrebbe da pensare, in poche parole, che ammesso che tutto ciò sia teoricamente adeguato per leggere il presente, in Europa non potrebbe mai attecchire. Di fronte a questo scetticismo e ragionevole timore, l’invito proposto è quello di approcciare lo scioglimento e il superamento di queste ambiguità con un lento esercizio di ricomprensione delle concezioni più risalenti o profonde di certi termini ed elementi storico-politici, al fine di rivalutarli come strumenti linguistici utili, descrittivi e prescrittivi, a disegnare una proposta rivoluzionaria spendibile anche in Europa, e che risuoni, su tonalità altre, alle orecchie di chiunque. E’ un lavoro enorme, che anzitutto richiede un notevole sforzo per le singole persone che decidano di mettersi al servizio della produzione di questo sapere scomodo, probabilmente impopolare in prima battuta anche all’interno delle compagini militanti dei movimenti sociali dei propri territori. Ma se è vero che questi sono i rischi, è altrettanto pacifica la percepita urgenza e la sensazione di mancanza di un orizzonte di senso generale convincente, e non meramente ideale, comune in tutte queste compagini. Pertanto ci si chiede, fin da queste prime condivisioni, se non valga la pena provare a proseguire in questo terreno apparentemente viscoso, opaco ed evanescente a tratti, ambiguo e poroso in alcuni suoi aspetti, ma che allo stesso tempo, non così lontano dalle nostre geografie sta costruendo, nel concreto, una rivoluzione fatta di carne, sangue, arte, macchinari e terreni potenti, vivi, realmente all’altezza delle necessità impellenti del mondo odierno.

A tale scopo, comunque, da più persone presenti emerge la necessità, fuori di retorica, di ottenere una risposta più legata alla materialità dei modi organizzativi rivoluzionari fondati sui princìpi introduttivi finora esposti e, in risposta, viene dunque offerta una breve presentazione su come opera concretamente il grande progetto di riterritorializzazione secondo il nuovo paradigma rivoluzionario. Come a dire che sulla base di ciò si valuterà, infine, se proseguire nel grande lavoro di sforzo di messa in discussione ideologica che si prospetta nel resto delle sessioni formative. A tale richiesta viene ribadito che a nulla serve una spiegazione del genere se davvero e nel profondo non si adotta e assume una forte riconfigurazione ideologica comunicabile e infiltrabile in tutte le diramazioni della società, tuttavia, a titolo esemplificativo, vengono introdotte le fondamenta del precipitato organizzativo dal punto di vista sociale e amministrativo secondo i principi del confederalismo democratico:

Ogni collettività (cittadina o rurale) si fonda sulla Comune come nucleo primario della vita sociale. L’insieme delle Comuni di un certo territorio compone una città o un paese, di cui sono espressione i Consigli di Città presieduti dalle/i co-presidenti di tutte le Comuni. Le decisioni si prendono per consenso espresso e solo se necessario a maggioranza. Inoltre, come espressione di tutta la confederazione dei territori così organizzati c’è un Consiglio Confederale che adotta decisioni comuni, valide su tutto il territorio confederale, tuttavia esprimendo con questi atti una volontà che non può mancare di una forte volontà politica e maturità programmatica che venga dal basso. Questa fortissima responsabilità è resa effettiva e operativa tramite un serrato meccanismo presente in tutti gli spazi di decisionalità interpersonale, sociale, e politico-amministrativa, con una attenzione qualificata proprio alle figure più responsabili, le quali sono infatti facilmente destituibili e sostituibili in caso di inadeguatezza. Un altro aspetto fondamentale relativo alla composizione della leadership e alla tutela sociale da possibili derive autoritarie è il fatto che essa vive e opera fuori dalle città e senza detenere potere effettivo nel controllo di territori, popolazioni e organizzazioni legate all’esercizio della sovranità. L’essere avanguardia politica obbliga all’essere forza motrice del lavoro rivoluzionario necessario a tutti i livelli, e il lavoro, più è determinante sotto il profilo degli obiettivi strategici, più verrà criticato (secondo il meccanismo delle platform periodiche) e perfezionato secondo livelli di aspettativa rigidi. L’essere fuori dalle città non significa dunque essere in una mera retroguardia tattica, bensì è terreno di formazione primario, autentico della personalità militante, che non si arricchirà in nessuna forma se non dal punto di vista delle ragioni e delle necessità della rivoluzione. Si potrebbe dire, quindi, che aldilà dei meccanismi di tecnica sociale costruiti, e non a caso derivati dall’ideologia (e non viceversa) peculiare dell’esperienza rivoluzionaria curda, ciò che veramente costruisce e dà qualità alla leadership del movimento è il comprovato esempio concreto, esperito attraverso anni e decenni di vita vissuta nella lotta, senza retorica ed etica dell’eroismo, senza ricompense che non siano sociali e socializzate.

Al termine di questo inquadramento didascalico, tuttavia, è bene non lasciare inevasa l’antifona generale, tutt’altro che meramente retorica, sulla sostanziale inutilità di condivisione di elementi pratici scevri dal loro humus fertilizzante di natura squisitamente ideologica. Viene fatto notare infatti che questa ansia tipicamente occidentale per il confronto positivo inteso come mero scambio di pratiche tradisca, in realtà, il senso di sicurezza e la sensazione di chiarezza auto-percepita relativa ai propri princìpi etico-politici. Ed è proprio su questa falsa sicurezza che chi si offre di condividere elementi di riflessione sulla forza (e sul consenso) del confederalismo democratico in Occidente, ha da muovere le più profonde critiche e suggerire i più profondi inviti alla messa in discussione e alla rielaborazione. Con tale scopo, quindi, si ritorna ad approfondire questa dimensione approfondendo il senso e il metodo trasversale di crescita e liberazione individuale e sociale alla base della rivoluzione: la critica e l’autocritica.

4. Critica e Autocritica.
Pratica che arriva dal Maoismo e assunta come pratica della lotta per la rivoluzione curda dal 1986, già con sviluppi teorici e pratici rispetto alla proposta maoista, secondo la celebre frase: “non si analizza il momento, ma la Storia; non l’individuo, ma la società”. Questo è l’indirizzo generale per approcciare il cambiamento più profondo necessario alla rivoluzione. Questa la premessa attitudinale per costruire delle personalità in grado di organizzare ogni azione realmente rivoluzionaria. Ogni problema va letto alla luce del contesto storico che lo produce, così come ogni comportamento individuale. Se si analizza la persona, lo si fa per analizzare, in realtà, l’impatto che la società ha su quella persona, in particolare sulla sua personalità. In questo senso questa pratica assume un valore di critica e autocritica in modo funzionale alla rivoluzione. A livello storico, questa tecnica viene sperimentata e sviluppata tra i militanti per poi diventare pratica sociale allargata. Come funziona in linea generale? Intanto, quando si riceve una critica non si innesca un conflitto fra le parti, bensì essa viene accolta come stimolo per migliorare il proprio ruolo nella società. Metaforicamente, appena si riceve una critica la si mette in tasca e la si tiene come un regalo che, prima o poi, avrà una utilità pratica. Chi fa la critica, invece, deve assumersi la responsabilità di quanto trasmette alla persona criticata, e nel farlo dovrà sempre contestualizzare il contenuto specifico con le cause sociali che lo producono e lo rendono problematico. Inoltre, chi critica si assume anche l’impegno concreto di ciò che dice qualora implichi degli sforzi per la risoluzione di un dato problema con la persona direttamente interessata dalla questione.
Questo meccanismo, già complesso a livello concettuale, assume una triplice sfaccettatura di complessità nel suo dispiegamento pratico, a seconda dell’ordine di grandezza delle attività poste a verifica (critica e autocritica).

  1. Primo livello: quotidiano, legato a ogni singola attività, interrelazione, gesto, frase, iniziativa istantanea. E’ un approccio trasversale di supporto e correzione reciproca per ogni piccola cosa.

  2. Secondo livello: TEKMIL (letteralmente “feedback”). Se nello specifico il feedback serve a porre in essere critiche, autocritiche o proposte pratiche, esso si svolge collettivamente in un momento specificatamente dedicato a questi scopi, dove tutto il gruppo coinvolto si riunisce. Il Tekmil si svolge più volte nell’arco di una giornata e per questa ragione si tende a renderlo un momento abbastanza spedito in cui andare dritti al punto delle questioni, senza discussioni, intervenendo una/o alla volta. Una persona svolge il ruolo di coordinatrice/coordinatore, apre e chiude il Tekmil partecipandovi anche direttamente, con l’onere in più poi di fare un riassunto conclusivo circa le questioni ritenute più salienti per il proseguimento del lavoro e degli impegni collettivi. A livello di contenuto della critica, essa deve essere sempre personale, così come l’autocritica e le soluzioni, invece, possono essere a carico della collettività.

  3. Terzo livello: Platform. In questo caso le soluzioni sono di carattere più personale in quanto è il gravoso il momento di critica e autocritica. Una volta l’anno (salvo necessità straordinarie, spesso dovute a ragioni particolarmente serie e gravi), ogni militante dopo una formazione intensa di uno o due mesi, viene sottoposta/o a platform per valutare la condotta personale. In caso d’urgenza, invece, si tiene su istanza di qualcuna/o che lo ritenga opportuno per risolvere un problema serio (che se ritenuto meritevole, dà seguito a platform straordinaria per una specifica persona). Infine, la platform è prevista di default per le persone che terminano un incarico di responsabilità di un certo rilievo.
    La platform funziona in questo modo: l’individuo sottoposto a platform prepara una sessione di autocritica che viene letta di fronte a tutte le persone chiamate a valutare e giudicare (che spesso sono quelle coinvolte dalla questione o legate alle attività della persona giudicata). Queste, dopo aver ascoltato, intervengono con le critiche che non saranno replicabili. Chi è sottoposto a platform a questo punto riprenderà parola e si assumerà degli impegni concreti per il superamento dei limiti emersi nell’autocritica e nelle critiche. La commissione, infine, accetterà oppure rifiuterà questi impegni. In caso di rifiuto, la persona soggetta a platform sarà esclusa dalle compagini militanti, mentre in caso di accettazione c’è il reintegro e la prosecuzione del lavoro. E’ un sistema apparentemente molto gravoso di giudizio reciproco, che ha tuttavia il fondamentale scopo di mettere a verifica l’attitudine militante e la volontà non tanto di trovare tempestivamente soluzioni concrete e puntuali ai problemi, quanto di dimostrare l’impegno a mettersi in discussione e al servizio delle necessità condivise fino in fondo.

Su queste basi di tecnica del sé, poi, è possibile effettuare il grande, fondamentale e davvero originale salto di qualità della scienza rivoluzionaria curda, la quale non è solamente una proposta culturale “alternativa”, bensì un vero e proprio progetto rivoluzionario di rifondazione dei modi di produzione del sapere tutto, con conseguente stravolgimento e liberazione dei modi di vita libera insieme nel loro complesso. Questa scienza è la scienza delle donne, meglio conosciuta come Jineoloji.