Prefazione: La prigione come laboratorio del pensiero libero

Epistemologie della ribellione, l’eredità di Abdulla Öcalan.

Prologo scritto da Rosario Aquim per l’edizione colombiana del libro Sociologia della libertà, scritto dal carcere di İmralı da Abdullah Öcalan.

I. Tra liane e sbarre: aprire una fessura nella cella del mondo

Un invito dall’Amazzonia ribelle a camminare con Öcalan, a pensare la libertà a partire dalle nostre proprie radici e cicatrici.

Non c’è prigione più perfetta di quella che si rende invisibile. Quella che si incrosta nei nostri corpi, nei nostri modi di amare, nelle nostre terre colonizzate, nelle parole che usiamo per far apparire come non siamo. Dall’Amazzonia boliviana -la mia terra di acqua, resistenza e memoria- ho portato a termine la lettura di Sociologia della Libertà, che mi ha attraversato come un fulmine, risvegliando la linfa dormiente delle lotte, dalle quali i mandorli, guardiani immutabili del tempo, sopportano la meschinità umana.

Questo libro non arriva da una torre d’avorio, ma da una cella, da un’isola-prigione in Turchia. Da lì, un uomo incatenato ha osato liberare il proprio pensiero e, con lui, quello di tutto un popolo. E sempre da lì, come un’eco sacra, la sua voce risuona anche a chi tra noi lotta da altri confini del mondo.

Conobbi l’opera di Abdullah Öcalan grazie ad un attivista, giornalista, ricercatore e militante curdo, attuale rappresentante del Congresso Nazionale del Kurdistan (KNK) in America Latina. Fu attraverso le sue parole e la sua presenza impegnata, che il pensiero radicale di Öcalan cominciò a radicarsi in me, nelle mie letture e nelle mie ricerche personali di emancipazione.

Questo amico attivista arrivò insieme ad altri compagni per la prima volta a La Paz, Bolivia, nel 2014, con il proposito di diffondere la causa del popolo curdo: una lotta millenaria per l’autodeterminazione nella quale confluiscono le ferite aperte del colonialismo, la violenza statale genocida e la frammentazione imposta dai poteri geopolitici globali. Tuttavia, fu solo anni più tardi che lo conobbi personalmente, quando fu presentata la nuova edizione boliviana del libro Origini della civilizzazione (il primo libro del Manifesto per la civiltà democratica di Öcalan). Fu lui che mi introdusse a questa opera fondativa e mi invitò a presentarla in diversi spazi accademici e sociali del Paese.

Quel gesto segnò una svolta nella mia comprensione della storia. Questo perché Öcalan non solo propone una rilettura profonda dei fondamenti della civilizzazione dell’Occidente; ma perché la sua opera traccia, dal cuore ferito del Medio Oriente, una critica radicale al patriarcato, al capitalismo e allo stato-nazione moderno. Tanto è vero che molte delle sue riflessioni mi hanno aiutato ad abbozzare e a completare una genealogia del patriarcato che utilizzo tuttora nei miei interventi sul tema, e che suggeriscono che il patriarcato risalga al neolitico urbano, in concomitanza con la civiltà sumera, la costruzione della Ziqqurat e l’invenzione delle prime divinità maschili, il cui proposito era destrutturare la legittimità e il riconoscimento del mito della Dea Madre. Come possiamo notare, nel pensiero di Öcalan la filosofia cessa di essere un esercizio astratto per convertirsi in una prassi liberatoria nutrita dalle lotte concrete dei popoli.

Gli attivisti curdi che arrivarono in Bolivia sono stati, in questo senso, un ponte vivo tra questa forma di pensiero insorgente e i territori concreti dell’America Latina.

Nell’aprile 2022 fu lanciata la campagna internazionale Giustizia per i curdi, che chiedeva al Consiglio dell’Unione Europea l’esclusione del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) dalla lista delle organizzazioni terroristiche. Sostenevano, con ragione e fermezza, che una tale stigmatizzazione non solo criminalizza la resistenza curda, ma chiude le possibilità di una soluzione politica, pacifica e duratura al conflitto in Turchia e in tutta la regione.

La risposta a questa attivazione non tardò ad arrivare. Nel maggio 2024, quando furono invitati a intervenire in conferenze presso istituzioni educative di Puebla e Guadalajara (Messico), alcuni di essi vennero detenuti nell’Aeroporto Internazionale di Città del Messico e deportati in Brasile, presumibilmente, per una segnalazione degli Stati Uniti. Lungi dal silenziarli esplicitamente, questo atto di censura internazionale rivelò l’effettivo pericolo che rappresenta la parola libera e ribelle per l’ordine costituito.

Nel gennaio del 2025, durante una visita in Asturias, Spagna, un mio amico tornò a insistere sulla necessità di dissolvere le frontiere imposte nel Vicino Oriente, facendo appello alla memoria viva delle culture, etnie e religioni che, per secoli, sono coesistite in questa regione. Alla luce della logica della frammentazione dell’esclusione, difendeva una visione plurale, profondamente democratica e decentralizzata del potere.

Parte essenziale di questa proposta è il Confederalismo democratico, un sistema politico formulato da Öcalan dalla prigione di Imrali e adottato come orizzonte strategico dal movimento curdo. La proposta si presenta come progetto civico alternativo, basato sull’ecologia, la democrazia diretta e la liberazione delle donne. Nelle sue parole risuona la speranza di un mondo nel quale la vita comunitaria si imponga sulla logica della guerra, del mercato e del patriarcato.

Non è un caso che questo compagno abbia riconosciuto legami profondi tra la lotta del popolo curdo e le resistenze dei popoli e delle nazioni di Abya Yala. In entrambi i casi ciò che c’è in gioco non è solo un diritto, bensì una cosmovisione, una forma di vita altra, delle modalità altre di abitare il mondo. Un gesto radicale che chiama in causa i fondamenti stessi della modernità. E fu esattamente lui che fece a me l’invito di scrivere questo prologo per l’edizione colombiana del tomo terzo, quello della Sociologia della Libertà, una delle opere più dense, critiche e visionarie di Abdullah Öcalan.

Ho accettato il compito con gratitudine e il senso di responsabilità che esso implica, ossia l’avvicinare a un’opera che, anche se partorita nelle viscere della reclusione, traspira libertà in ognuna delle sue pagine. A maggior ragione alla luce del fatto che, come ho già detto, Öcalan scrive dalla prigione di massima sicurezza di Imrali, nella quale è tuttora rinchiuso, in condizioni estreme, dal 1999. Isolato dal mondo, ma non dalla storia. Da lì ha dispiegato un sistema di pensiero che fuoriesce dalla logica dell’incarcerazione e che si proietta verso gli orizzonti emancipatori che attraversano le frontiere, le culture e le epoche. Un sistema di pensiero nel quale la teoria critica e la prassi liberatrice convergono per risignificare i fondamenti stessi del politico. In un mondo attraversato dalla crisi dei sistemi egemonici -capitalismo, patriarcato e statalismo-, il pensiero di Öcalan emerge come un atto di resistenza ontologica, una messa in discussione radicale delle strutture che configurano le nostre forme di vita e convivenza.

Al cuore della sua proposta si trova un’audace riconfigurazione della modernità, non tanto come fatalità storica, bensì come uno spazio di disputa in cui il potere egemonico può essere sfidato attraverso pratiche di autonomia democratica, pluralismo comunitario e uguaglianza di genere. Questo focus, profondamente influenzato dalle tradizioni filosofiche che vanno dalla critica marxista fino al pensiero ecologico e femminista, non solo ci invita a immaginare futuri alternativi, ma anche a dimostrare i dispositivi ideologici che perpetuano lo sfruttamento e la dominazione.

Öcalan non scrive dalla distanza che assume il filosofo in astratto; la sua opera è, anzitutto, un atto di resistenza incarnata, perché nel momento in cui viene scritta nelle condizioni estreme della prigione il suo pensiero diviene una sorta di etica della speranza, una testimonianza indiscutibile, dalla quale persino dai margini più oscuri del potere il pensiero critico può fiorire come strumento per costruire mondi più giusti.

Questo prologo cerca di avvicinarsi all’opera di Öcalan non solo come un corpus teorico, ma come un invito a un dialogo trasformatore con le nostre proprie realtà, a una sfiducia verso le nostre certezze e una provocazione filosofica per riconfigurare la nostra relazione con il comune, il politico e l’umano.

II. Il ribelle del Kurdistan: quando un corpo in prigione libera i popoli del mondo

Dalla sua cella di Imrali, Öcalan ha tessuto un pensiero viscerale. La sua voce si intreccia oggi con altre voci: quelle delle nostre foreste, delle nostre nonne e delle nostre ribellioni queer.

Abdullah Öcalan è il leader storico del popolo curdo. Fondatore del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), è stato perseguitato, demonizzato e condannato all’ergastolo per aver immaginato un mondo senza stato-nazione, senza patriarcato e senza capitalismo.

Però Öcalan, come i nostri saggi sciamani e le nostre sagge nonne, sa che le sbarre non possono trattenere i sogni. Nella prigione ha scritto un’opera fondamentale dove combina storia, sociologia, filosofia politica e spiritualità, proponendo una trasformazione della civiltà di profondo respiro.

Quello che lui chiama paradigma della modernità democratica dialoga intimamente con le nostre forme ancestrali di autogoverno, con la difesa della Madre Terra e la Madre Selva, la Dea Madre Natura, con i femminismi nomadi e comunitari e con le nostre dissidenze sessuo-affettive.

Abdullah Öcalan è nato il 4 aprile del 1949, nel villaggio di Ömerli, nella provincia di Şanlıurfa, Turchia. E’ cresciuto in una famiglia contadina curda, in un contesto segnato dalla povertà e dalla marginalizzazione, con cui dovevano confrontarsi i curdi in Turchia, dove la sua identità culturale e linguistica era repressa. Da giovane fece esperienza delle ingiustizie nei confronti dei curdi, e questo forgiò il suo carattere e il suo vincolo alla politica.

Negli anni Settanta si trasferì ad Ankara per studiare Scienze Politiche presso l’Università di Ankara. Fu lì che cominciò a legarsi attivamente ai movimenti di sinistra e si interessò al marxismo-leninismo, ideologia che avrebbe avuto un’influenza poi nel suo pensiero degli inizi. Nel 1978, insieme ad altri attivisti, fondò il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), con l’obiettivo di creare un Kurdistan indipendente e socialista.

Sotto la leadership di Öcalan, il PKK adottò inizialmente strategie di lotta armata contro lo stato turco, a partire dal 1984. Questo conflitto armato incentrato sull’autodeterminazione del popolo curdo fu brutale e lasciò molti morti. Tuttavia, lo scopo fondamentale del PKK evolse con il tempo, specialmente con la detenzione di Öcalan, verso una strategia meno incentrata sull’ottenimento di uno stato indipendente e più sull’autogoverno democratico.

Nel 1999, Öcalan fu catturato da forze di sicurezza turche in un’operazione sostenuta dalla CIA e dal Mossad. Fu arrestato a Nairobi, Kenia, dopo aver abbandonato la Siria che fino ad allora gli aveva dato rifugio. La sua cattura fu un evento controverso e fu celebrato dal governo turco; tuttavia, generò proteste di massa della diaspora curda. Fu condannato a morte, ma grazie alle pressioni del popolo curdo la sentenza fu commutata in ergastolo. Successivamente, nel 2002, la Turchia abolì la pena di morte, all’interno del suo processo di integrazione nell’Unione Europea. Da allora, Öcalan è stato recluso nell’isola-carcere di İmralı, nel Mar di Marmara, sotto condizioni di isolamento estremo. Malgrado la sua incarcerazione ha continuato a scrivere e a sviluppare il proprio pensiero politico, che ha influenzato il PKK e altri movimenti curdi.

In prigione, Öcalan cominciò a criticare il modello di stato-nazione come soluzione per i curdi e si allontanò dal marxismo-leninismo ortodosso. Ispirato da autori come Murray Bookchin (ecologista sociale e teorico del municipalismo libertario), sviluppò la sua visione del Confederalismo democratico, un sistema che promuove: la democrazia diretta, come forma di governo locale basata su assemblee comunitarie; l’ecologia sociale, come protezione dell’ambiente, fondamento di qualsiasi modello politico; la liberazione delle donne, come rifiuto del patriarcato come pilastro delle strutture di oppressione; il pluralismo etnico e culturale, in una società che rispetta e celebra la diversità in tutte le sue manifestazioni.

Questo modello è stato implementato su grande scala in Rojava, il Kurdistan siriano, dove nel 2011 si sono stabilite strutture di autogoverno che cercano di concretizzare i princìpi di Öcalan, attraverso le strutture popolari dell’Amministrazione Autonoma Democratica del Nord e dell’Est della Siria (DAANES).

Sebbene Öcalan continui a essere una figura controversa (considerato un leader rivoluzionario da alcuni e terrorista da altri), il suo impatto nella politica curda e globale è indiscutibile. I suoi scritti hanno ispirato movimenti di sinistra, ecologisti e femministi in tutto il mondo. Il modello di autonomia democratica del Rojava è stato un esperimento osservato da vicino da coloro che cercano alternative al capitalismo e allo stato-nazione.

Dal suo arresto nel 1999 ha scritto numerose opere dalla prigione, approcciando temi come la liberazione delle donne, l’ecologia, la democrazia diretta e le alternative al capitalismo. Alcune delle sue opere più di spicco analizzano l’oppressione delle donne quale pilastro del sistema patriarcale e come la loro liberazione sia la chiave per qualsiasi trasformazione sociale; altre opere propongono poi il Confederalismo democratico come modello alternativo allo stato-nazione, sostenendo l’autonomia locale, il pluralismo e la partecipazione diretta delle comunità. E, nella maggior parte dei casi, affronta il conflitto curdo e sostiene che la soluzione non sta nella creazione di uno stato curdo, ma nella costruzione di una nazione democratica senza rigidi confini statali.

III. Pensare la libertà dai margini: una chiamata per coloro che non rientrano nel sistema.

In tempi di civiltà asfittiche, l’opera Sociologia della Libertà risuona come un canto profondo che interconnette lotte: quella curda, quella amazzonica, quella dissidente, quella dei popoli che non si arrendono.

Cos’è la libertà per coloro che ne sono sempre stati privati?

Per i popoli e le nazioni di Abya Yala, per le dissidenze sessuo/di genere/sessuali, per le donne razzializzate, per coloro che abitano territori ambiti dall’estrattivismo e dalla violenza coloniale, la parola libertà è stata molte volte un miraggio o una promessa tradita.

Öcalan non offre formule chiuse. Offre una lettura radicale del potere, dello stato, del patriarcato e delle logiche capitaliste che strutturano le nostre esistenze. La sua proposta del Confederalismo democratico è un filo rosso che può interconnettersi con le nostre forme comunitarie, i nostri tessuti territoriali nomadi e con le nostre ribellioni amorose.

Il libro Manifesto per una Civiltà Democratica. Sociologia della Libertà, terzo volume della serie Manoscritti dalla prigione di Abdullah Öcalan, viene alla luce in primo luogo in un contesto storico e politico segnato dallo scontro tra le aspirazioni emancipatorie dei popoli e le forze egemoniche del capitalismo globale, lo statalismo autoritario genocida e il patriarcato. Questa opera si staglia come risposta critica e creativa alle molteplici crisi della modernità e come testimonianza del potere trasformatore del pensiero in condizioni di oppressione.

La causa che dà impulso a Sociologia della Libertà ha la sua radice nella profonda volontà di mettere a sfidare le epistemologie dominanti che, sotto la maschera della neutralità scientifica, hanno normalizzato le strutture di dominazione, oppressione ed esclusione nella modernità capitalista. Abdullah Öcalan, in questo contesto, non solo smentisce le basi ideologiche del sapere egemonico, ma propone una sociologia insorgente, orientata all’emancipazione dei popoli e alla ricostituzione del comune.

In un mondo configurato attraverso la colonialità del potere e la logica strumentale del capitale, Öcalan rivendica la sociologia come campo di resistenza e creazione. La sua proposta parte da una diagnosi chiara: il sapere non è neutro; è intriso di relazioni di potere e, come tale, può essere strumento di dominazione o di liberazione. La Sociologia della Libertà si posiziona come strumento di quest’ultima, offrendo una cornice teorica e metodologica che pone al centro le comunità storicamente soggiogate e private di agentività.

La modernità capitalista non è un progetto universale di progresso, bensì una costruzione storica che ha istituzionalizzato forme strutturali di sfruttamento e dominazione. Secondo questa narrazione, la sociologia tradizionale ha giocato un ruolo fondamentale nel servire come legittimatrice dell’ordine costituito, modellando epistemologie che invisibilizzano le resistenze collettive e perpetuano la diseguaglianza. É in questo terreno che Öcalan propone una sociologia contro-egemonica costruita non per interpretare il mondo dai margini del potere, ma per trasformarlo a partire dal suo nucleo oppressivo.

Quest’opera, profondamente influenzata da tradizioni di pensiero critico quali il materialismo storico, il femminismo e l’ecologia sociale, non solo interpella le categorie classiche della sociologia, ma le riconfigura da una prospettiva che dà priorità all’autonomia, la giustizia e la solidarietà. Questa rifocalizzazione verso una sociologia “dal basso verso l’alto” cerca di articolare una conoscenza che sia capace di decostruire le strutture del patriarcato, il colonialismo e lo statalismo man mano che immagina forme radicalmente democratiche di organizzazione statale.

In ultima istanza, possiamo dire che il fine ultimo di Öcalan non è solo teorico, bensì profondamente etico e politico: la sua sociologia non pretende di descrivere il mondo, ma di trasformarlo. In questo senso Sociologia della Libertà è un invito a decolonizzare le nostre menti, a ripensare la nostra relazione con il potere e a vincolarci attivamente con la costruzione di un mondo più libero, plurale e umano.

In secondo luogo, anche il momento storico in cui si sviluppa Sociologia della Libertà è attraversato dall’emersione di movimenti sociali che questionano la logica estrattivista del capitale e il monopolio del potere statale. Öcalan riconosce la confluenza di queste lotte -indigene, femministe, ecologiste, anti-coloniali- e articola una visione sociologica che le integra come orizzonti di una nuova prassi emancipatrice. In questo senso, il libro non solo dialoga con le tradizioni del pensiero critico quali il marxismo, il femminismo e l’ecologia sociale, ma le ridefinisce anche in una cornice di autonomia democratica e confederalismo.

In terzo luogo, la contestualizzazione di questa opera non può essere scissa dall’esperienza personale e collettiva di Öcalan come leader del Movimento di liberazione curdo, il cui progetto di autonomia democratica trascende le frontiere nazionali per proporre un paradigma alternativo di convivenza umana. In Sociologia della Libertà le lotte del popolo curdo sono inscritte in una narrazione universale di resistenza contro l’oppressione, connettendo la dimensione locale con quella globale, e la dimensione storica con quella etica. Rivelando così un testo profondamente radicato nelle contraddizioni del suo tempo, ma anche una proposta atemporale che smentisce le categorie convenzionali del pensiero sociologico e propone una chiamata urgente a riconfigurare le nostre forme di conoscere, essere e agire nel mondo. Mostrando, poi, che Sociologia della Libertà non è un’ennesima teoria accademica: è una ricostruzione ontologica e politica dell’essere umano in relazione con la comunità, con la terra e la storia.

Se dovessimo riassumere brevemente questo libro dovremmo dire che in esso Öcalan propone una nuova forma di fare sociologia che va al di là delle discipline accademiche tradizionali. La sua non è una sociologia “neutrale”, ma militante, critica, insorgente. La chiama sociologia della libertà perché il suo proposito è comprendere le radici dell’oppressione (capitalista, patriarcale, statale) per poterle smantellare e creare società veramente libere. Per Öcalan, l’essere umano è intrinsecamente legato alla libertà. Non come un’astrazione, ma come potenziale pratico che crea comunità, giustizia, uguaglianza e armonia con la terra e la natura.

Öcalan, in quest’opera, approfondisce anche la sua critica alla civiltà capitalista come sistema dominante, in quanto considera il capitalismo non solo come modello economico, bensì come una forma di civilizzazione basata sul controllo, la frammentazione della vita e la subordinazione della natura. E lo stato-nazione moderno è precisamente la forma politica centralizzata di questa civilizzazione capitalista, incompatibile con la libertà. E, qualora ciò sembrasse ancora poco, il patriarcato non è presentato come conseguenza secondaria, ma come il primo sistema di dominazione, addirittura precedente allo stato e al capitale. Per questo la liberazione delle donne si trova al centro del pensiero di Öcalan.

Un altro tema che si affronta nell’opera è il Confederalismo democratico come alternativa politica a questo sistema. Öcalan propone il Confederalismo democratico come una forma di organizzazione sociale basata sull’autonomia locale e la democrazia diretta; sull’uguaglianza di genere e sulla libertà delle donne come pilastro fondante; sull’economia sociale e sull’ecologia; sul riconoscimento e sul rispetto della diversità culturale, religiosa ed etnica.

Questo modello è ispirato tanto da tradizioni curde quanto da esperienze altre di lotta globale. Ha similitudini molto forti con il processo boliviano, soprattutto con il concetto di stato plurinazionale come rottura con lo stato-nazione uniculturale; con le autonomie indigene originarie contadine; con le lotte per la Madre Terra e il Buen Vivir; con i femminismi comunitari e decoloniali, che criticano l’eurocentrismo, la colonialità del potere e la colonialità del genere.

Infine, Öcalan ci parla della libertà come prassi. Non parla di libertà come “libertà individuali”, secondo lo stile liberale. Parla di libertà collettiva: la capacità dei popoli di autogovernarsi, autogestirsi, prendersi cura dei propri territori, recuperare la propria memoria storica e costruire il proprio futuro.

Questa libertà non è un punto di arrivo, bensì un processo costante di organizzazione, critica, apprendimento e resistenza. Per questo la sociologia della libertà è anche una pedagogia di emancipazione.

In conclusione, possiamo dire che Sociologia della Libertà, più che un libro, è una bussola politica ed etica perché ci invita a ripensare la storia, a disobbedire alle forme imposte del vivere e a costruire, dal basso, una nuova civiltà basata nella comunalità, l’ecologia, l’equità e il rispetto profondo per la diversità.

IV. Radici che si estendono: cammini verso un Confederalismo per l’Abya Yala.

Questo libro non si limita ad analizzare: convoca. É una mappa che può essere letta anche dal Beni, dalle nostre assemblee, dai nostri femminismi nomadi, dalle nostre lotte per la terra, e dal corpo e i suoi desideri.

Sociologia della Libertà è la terza parte del suo manifesto per la libertà. É un testo appassionato e urgente nel quale Öcalan sostiene che senza una rivoluzione nella nostra forma di comprendere il mondo -nelle nostre relazioni, nelle nostre forme di pensiero, nelle nostre strutture organizzative- non ci sarà una vera emancipazione.

Leggere questo libro dall’Amazzonia beniana, dai corpi queer-dissidenti che resistono a partire dalla tenerezza e il coraggio, significa scoprire un’affinità inaspettata.

Come se il fiume Beni e il fiume Tigri potessero parlarci all’orecchio con lo stesso mormorio ribelle. Come se il popolo curdo e i popoli e le nazioni di Abya Yala fossero stati, da sempre, a ricercarsi nel mezzo del rumore del mondo.

Questo libro è una mappa. Però non una che detta rotte o impone percorsi. É una mappa che invita a immaginarne altre, a tracciare sentieri propri verso l’autonomia, l’autogoverno e la libertà affettiva. Che ogni persona lo legga con i piedi ben piantati alla terra cui appartiene e con il desiderio e il piacere come bussole.

Il libro è organizzato in un prologo, un’introduzione e otto capitoli. Nel prologo, Öcalan sostiene l’urgenza di una nuova sociologia che affronti le domande essenziali sulla libertà a partire dal contesto della modernità capitalista.

Nell’introduzione, si espone il proposito centrale del libro: analizzare le radici profonde dei problemi sociali contemporanei e proporre soluzioni a partire dal paradigma della modernità democratica.

Nel capitolo uno: alcuni problemi di metodologia. Vengono criticati i limiti delle metodologie tradizionali nelle scienze sociali e si propone un’approssimazione alternativa che combina critica storica e prassi politica.

Nel capitolo due: la questione della libertà. Öcalan esplora il concetto di libertà, contrastando le concezioni individualiste del liberalismo con una visione più collettiva e radicata nel sociale.

Nel capitolo tre: Il potere della ragione sociale. Si analizza come l’intelligenza collettiva sia stata manipolata -e di fatto catturata- dalle strutture di potere, annichilendo il senso di necessità di recuperare una ragione sociale autonoma.

Nel capitolo quattro: l’emersione della questione sociale. Si affronta l’origine storica dei problemi sociali, mostrando come le strutture di potere abbiano prodotto disuguaglianze e conflitti sistemici.

Nel capitolo cinque: visualizzando il sistema della civiltà democratica. Si presenta la civiltà democratica come un’alternativa al modello gerarchico e centralizzato della civiltà, in quanto basata invece sulla diversità culturale e sull’autonomia dei popoli.

Nel capitolo sei: modernità democratica versus modernità capitalista. Si contrappongono due paradigmi di modernità: uno capitalista, incentrato sulla centralizzazione del potere e sul mercato; l’altro democratico, fondato sulla decentralizzazione, l’ecologia e l’uguaglianza di genere.

Nel capitolo sette: I problemi della ricostruzione della modernità democratica. Öcalan enumera i compiti intellettuali, etici e politici necessari per costruire una società ispirata ai principi della libertà collettiva.

Come possiamo apprezzare, leggere Öcalan significa entrare in un dialogo con le correnti critiche più importanti del pensiero contemporaneo, ma da un luogo geopoliticamente espiantato, dalla voce di un popolo negato. La sua scrittura non rifugge la complessità: attraversa la storia delle civiltà, sminuzza le radici del potere, analizza il patriarcato come la prime e più persistente forma di dominazione, e illumina le possibilità di una nuova etica civilizzatrice basata sulla autonomia, la pluralità e la comunalità.

Come donna boliviana, latino-americana, come amazzonica, come pensatrice situata in un territorio in cui anche i corpi e le comunità sono state storicamente sottomesse alla dissoluzione, ho incontrato in questo testo una risonanza profonda. Questo perché Öcalan non propone un’utopia sradicata, ma una trasformazione dal basso a partire dalle pratiche di vita quotidiana, dal recupero del tessuto sociale e spirituale che il capitalismo e lo stato-nazione hanno ridotto in stracci.

Il Confederalismo democratico asse portante della sua proposta politica non è quindi un’astrazione. É una forma concreta di riorganizzazione sociale, di cui già si fa esperienza in Rojava, nel Nord della Siria, e che si basa sull’auto-organizzazione delle comunità, sul riconoscimento della diversità culturale e religiosa, sulla centralità delle donne come soggetti politici della trasformazione. Questa esperienza ci parla di una rivoluzione che non aspetta il futuro, ma che si costruisce qui e ora, con tutte le sue contraddizioni, ma anche con tutta la sua potenza.

I compagni curdi hanno notato nel mio sguardo, forse, un’affinità con questo orizzonte. Per questo mi offrirono questa responsabilità che assumo anche come forma di tendere ponti tra le nostre geografie di lotta. In questa Sociologia della Libertà riconosco non soltanto la testimonianza di un popolo resistente, ma anche una filosofia insorgente che interpella i nostri modi di conoscere, di vivere e di vincolarci reciprocamente. Un invito a immaginare -e a costruire- mondi nei quali la vita possa essere vissuta con dignità, senza gerarchie, senza catene.

Questo prologo non pretende di esaurire la ricchezza di quest’opera. La mia intenzione è aprire appena una breccia, invitare alla lettura attenta, coinvolta, appassionata. Perché necessitiamo mai come ora di rincontrarci con le voci che sono state silenziate dal potere globale, ascoltare con il cuore e con la ragione per riflettere su quelle verità che non trovano spazio nei discorsi ufficiali, né nella logica di mercato, né nei manuali di storia.

Öcalan, dalla sua cella, ci ricorda che la libertà non è un punto di arrivo, bensì un processo vivo, un tessuto che si riproduce collettivamente, una costruzione etica che ci mette in discussione davanti a ogni decisione, ogni parola, ogni passo. Il suo pensiero, in dialogo con lo spirito ribelle dei popoli, si trasforma in uno strumento vitale per pensare l’emancipazione aldilà delle forme classiche della politica. Per questo, leggerlo non è semplicemente un atto intellettuale, ma un atto profondamente politico. Così politico che le tesi portate in questo terzo tomo risuonano vicine ai processi che abbiamo vissuto -e continuiamo a vivere oggi- in Bolivia. In particolar modo con le lotte di decolonizzazione, di depatriarcalizzazione e la difesa della Madre Terra, della Madre Selva, le quali non sono slogan astratti, ma percorsi concreti di trasformazione storica che si fanno strada a partire dai popoli e dai territori.

La sociologia della libertà propone una rottura radicale con le strutture di dominazione che hanno dato forma al mondo moderno: lo stato-nazione centralizzato, il patriarcato come matrice originaria di tutte le oppressioni, il capitalismo come logica totalizzante del mercato. Questa critica profonda, che Öcalan articola a partire dall’esperienza curda, trova parallelismi nella critica che i popoli indigeni, le donne e le comunità organizzate in Bolivia hanno sostenuto contro gli effetti coloniali del potere. Dalla promulgazione dello Stato Plurinazionale nel 2009, la Bolivia ha tentato di rompere con il modello dello stato mono-culturale e patriarcale ereditato dall’ordine coloniale e dal liberalismo repubblicano. Nella sua essenza, questa proposta emerse dalle lotte millenarie dei popoli indigeni, specialmente delle nazioni amazzoniche e andine, le quali esigettero il riconoscimento della propria autodeterminazione, dei propri territori, delle proprie forme di vita e di governo. Fu in queste geografie -dalle selve e i fiumi fino alle montagne- che venne alla luce la speranza di un nuovo patto di civiltà guidato dal suma qamaña (bien vivir) come alternativa allo sviluppo capitalista ed estrattivista. Tuttavia, questo progetto fu tradito dal governo di turno che dalla propria posizione di potere centralizzato e fortemente andinocentrico, ha svuotato di contenuto trasformatore il progetto dello Stato Plurinazionale. La marcia del TIPNIS nel 2011 si convertì in un simbolo emblematico di questo tradimento: popoli indigeni dell’Amazzonia e dell’Oriente resistettero al tentativo statale di imporre un mega-progetto autostradale che attraversava il loro territorio, bypassando il diritto alla consultazione preliminare e all’autogoverno. Quella che venne svelata allora fu la persistenza di un colonialismo interno che subordina i popoli indigeni alle decisioni dello stato-nazione e riproduce logiche sviluppiste, estrattiviste e patriarcali. Invece di transitare verso una rifondazione reale, lo Stato Plurinazionale fu riconfigurato come uno Stato Pluricoloniale in cui la diversità si celebra nella retorica, ma allo stesso tempo si nega nella pratica. Si mantennero intatte le strutture di dominazione: il centralismo statale, il razzismo strutturale, il patriarcato istituzionale e l’estrattivismo come politica economica dominante. Malgrado ciò, il sogno dello stato plurinazionale non è però morto. Rimane come utopia insorgente, intessuta nelle memorie e resistenze dei popoli amazzonici, andini e afrodiscendenti, i quali, tutti, continuano a scommettere per un orizzonte dove la vita degna, l’autonomia e la pluralità non siano eccezione, ma regola. E giustamente, a partire da un’altra geografia, Öcalan immagina qualcosa di simile: un ordine sociale plurale, non gerarchico, ecologico e comunitario in cui la politica torni a essere una pratica collettiva di cura e decisionalità.

Allo stesso tempo il focus del Confederalismo democratico, con le sue enfasi nella auto-organizzazione delle comunità, l’autonomia territoriale e la leadership politica delle donne, dialoga intimamente con le proposte femministe nomadi e comunitarie che emergono dalle nostre terre. La de-patriarcalizzazione -intesa non come una semplice inclusione delle donne, ma come un orizzonte di possibilità, una trasformazione radicale delle relazioni patriarcali di potere che strutturano le nostre società- è un compito comune, per il futuro, che attraversa il Kurdistan, le Ande e l’Amazzonia.

Ed è precisamente nella relazione con la terra che il pensiero di Öcalan raggiunge una potenza speciale per le nostre lotte. A fronte dell’estrattivismo predatore, la mercantilizzazione della natura e le crisi ecologiche globali, la sua proposta di una società ecologica che ci restituisca l’armonia con il circostante non si limita a una nostalgia del passato, ma a un’urgenza del presente. In Bolivia, la difesa della Madre Terra e della Madre Selva, ossia Madre Natura in generale, ha rappresentato uno standard dei popoli originari, i quali hanno sfidato tanto il colonialismo esterno quanto i progetti interni di sviluppo che sacrificano la vita dei territori e delle sue genti nel nome del progresso.

Leggere la Sociologia della Libertà dalla Bolivia -e spero anche dalla Colombia e il continente tutto- è un invito a tessere dialoghi del Sud globale, a interconnettere esperienze che, da differenti realtà, cercano la stessa cosa: liberarsi dai gioghi della dominazione per reinventare collettivamente la vita. É anche un esercizio di mutuo riconoscimento tra popoli che resistono e sognano, che lottano e creano, che non si rassegnano a vivere sotto i dettami della violenza strutturale, la cancellazione del ricordo imposta e la logica del capitale.

Perché tra le parole di Öcalan e la mia stessa memoria esiste un filo di tenerezza indomabile che ci connette. Lui, dalla sua gabbia, scrive con la pazienza di chi ha imparato che la libertà non si elemosina: si sogna, si coltiva e si difende. Io, da questo angolo dell’Amazzonia meticcia e ribelle, scrivo con la certezza che anche le nostre ferite sono semi. Ciò che ci unisce non è solo il dolore condiviso, ma anche la tenace volontà di amare la vita anche in mezzo alla miseria.

Questo libro ci ricorda che qualsiasi vera rivoluzione comincia con un cambio nella coscienza collettiva, con un’etica rinnovata della cura, della reciprocità e della dignità. Per questo scrivere questa prefazione per me non è stato un semplice incarico intellettuale, ma una forma di camminare insieme a coloro che hanno scelto di non arrendersi, anche quando tutto sembra perso. Questa prefazione non è un punto di chiusura, ma una porta aperta all’incontro.

Che questo libro sia un seme. Che germini nei territori dove ancora si lotta per la vita. Che circoli, si legga, che venga discusso, messo in discussione, si reinventi nei nostri territori. Che si trasformi in strumento per coloro che resistono. Che serva come ponte tra le nostre lotte. Perché solo dal basso, dai margini, dai corpi e dai territori storicamente violentati può nascere una sociologia che veramente abbracci la libertà -una libertà tessuta con tenerezza, dignità e con la speranza invincibile dei popoli razzializzati del mondo.

Rosario Aquím Chávez

Amazzonia di Riberalta, 2025

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Rosario Aquim Chávez (Riberalta, 1964) è una comunicatrice, attivista, poetessa e saggista boliviana. Si distingue per i temi della sua opera poetica incentrati sull’erotismo, la sensualità e la soggettività, nonché per il suo lavoro come attivista per i diritti e pensatrice femminista.