La guerra in Ucraina sta intensificando la crisi energetica in Europa. L’aumento dei costi dell’energia, di cui soffrono soprattutto le fasce più povere della popolazione, rappresenta un’opportunità per le multinazionali statunitensi, del Qatar e di altri Paesi: queste cercano di trarre profitto dalla ricattabilità dell’Europa per la dipendenza dal gas russo e si propongono come alternativa. Come dovrebbero comportarsi le forze democratiche in questa competizione di politica energetica tra potenze imperialiste? Alcune riflessioni socio-ecologiche sul rafforzamento di una terza posizione.
Quasi anticipando la guerra in Ucraina e l’escalation della disputa sul gas, migliaia di attivisti della rete tedesca per la giustizia climatica Ende Gelände avevano già messo il dito nella piaga: l’anno scorso avevano occupato le infrastrutture del gas a Brunsbüttel, dove è prevista la costruzione di un terminal per le navi cisterna che trasportano gas naturale liquido – tra cui il gas proveniente dagli Stati Uniti e dal Qatar. La guerra per l’Ucraina offre alle multinazionali del gas di questi Paesi la possibilità di presentarsi come salvatori dell’Occidente nella lotta contro l’imperialismo russo. E con questa auto-rappresentazione, diligentemente riprodotta dai media liberali, prende forma un’involuzione della politica sul clima: nel bel mezzo della crisi climatica, la costruzione di nuove infrastrutture a combustibile fossile è ora addirittura da affrettare.
La disputa sul gas è una delle questioni centrali per la classe dirigente europea in relazione alla guerra in Ucraina, soprattutto perché rende la guerra economicamente percepibile anche in Europa. Dopo l’aumento dei prezzi dei generi alimentari, della benzina e del gasolio, ora anche il gas sta diventando più costoso. Non solo per le famiglie ma, fatto ancor più grave per la classe dirigente, anche per l’industria. Il fatto che autorevoli politici tedeschi minaccino di espropriare le società tedesche affiliate ai giganti russi del gas Gazprom e Rosneft dimostra l’entità della crisi.
Il gas fracking statunitense non risolve alcun problema
Il ministro dell’Economia della Germania, Robert Habeck dei Verdi, punta di diamante di un imperialismo tedesco che si considera progressista, è stato recentemente in Qatar per negoziare accordi sul gas con la monarchia islamista. Ma Saad Sharida al-Kaabi, ministro dell’Energia del Qatar, ha frenato il ministro tedesco: il Qatar ha già contratti a lungo termine con altri Stati, tra cui la Cina. Questo, a sua volta, rafforza la posizione negoziale degli Stati Uniti che, sotto la guida dell’ex presidente Donald Trump, sono già stati piuttosto aggressivi nel promuovere l’esportazione di gas americano in Europa, in parte per legare maggiormente l’UE a sé nel conflitto con la Russia.
E poiché il Qatar non può rifornire l’Europa, ciò che a lungo è stato considerato un tabù è improvvisamente tornato a essere accettabile: l’importazione di gas statunitense sottoposto a fracking. Il processo di fracking consiste nell’iniettare ad alta pressione una miscela di acqua, sabbia e sostanze chimiche in strati profondi di roccia scistosa contenente metano. In questo modo si rompe la roccia e si fa fuoriuscire il gas. Le sostanze chimiche utilizzate nel fracking non sono però affatto note, perché le compagnie del gas le tengono segrete, e questa è una delle principali critiche mosse al metodo. Negli Stati Uniti, dove il fracking viene praticato su larga scala da molti anni in circa 500.000 pozzi, si sono già verificati incidenti che hanno contaminato terreni agricoli e falde acquifere.
Peggioramento della crisi climatica
Ma non è questo il problema principale: diversi studi condotti negli Stati Uniti e nel Regno Unito hanno concluso che l’uso del gas naturale è dannoso a lungo termine almeno quanto altri combustibili fossili come la lignite o il carbone fossile. Questo perché il gas fuoriesce già durante l’estrazione, in media l’otto per cento del volume di estrazione. Inoltre, il gas metano è almeno 25 volte più dannoso per il clima rispetto alla CO2, cioè una tonnellata di gas metano contribuisce all’effetto serra 25 volte di più di una tonnellata di CO2.
Secondo i ricercatori Amanda Levin e Christina Swanson del Consiglio per la Difesa delle Risorse Naturali degli Stati Uniti, i tentativi degli USA di aumentare la produzione e l’esportazione di GNL potrebbero di fatto vanificare ogni possibilità di limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi Celsius (rispetto all’epoca preindustriale). I 130 – 213 milioni di tonnellate di nuove emissioni di gas serra negli Stati Uniti, che si avrebbero triplicando le esportazioni tra il 2020 e il 2030, equivarrebbero alla circolazione di 45 milioni di auto in più ogni anno.
La soluzione è decentralizzare…
Il passaggio al gas statunitense non è un male minore o una tecnologia ponte verso una nuova era verde, ma la continuazione di una politica energetica che avvantaggia le grandi aziende e rende i ricchi sempre più ricchi, mentre distrugge le basi ecologiche della sopravvivenza umana. È la prosecuzione di una politica energetica che rappresenta un’estensione del sistema attuale di potere: una continuazione della guerra ecologica.
Ma se neppure il gas statunitense è una valida alternativa a quello russo, con cosa ci dovremmo riscaldare? Come potremo far funzionare gli impianti industriali che finora hanno funzionato a gas? Le soluzioni tecniche a queste domande sono in fase di studio da decenni: le pompe di calore utilizzano l’energia geotermica per riscaldare gli ambienti, il solare termico sfrutta l’energia del sole e i radiatori a pellet formano un ciclo chiuso perché il legno ricresce, trattenendo nuovamente la CO2 nel processo. Tutte queste soluzioni hanno in comune non solo il fatto di essere quasi neutre dal punto di vista delle emissioni di CO2, ma anche di essere adatte all’approvvigionamento energetico decentralizzato. Il futuro non sta nella dipendenza da grandi centrali elettriche, che comportano la concentrazione non solo di energia ma anche di potere, ma piuttosto – laddove tecnicamente fattibile – nell’autosufficienza comunitaria. Questo vale sia per il riscaldamento che per la produzione di elettricità.
…e superare il capitalismo
Ma una transizione energetica radicale deve spingersi più a fondo della semplice introduzione di altre fonti di riscaldamento e di elettricità. Alcuni studi dimostrano chiaramente che una soluzione esclusivamente tecnica non è sufficiente, perché non riduce abbastanza velocemente la quantità di energia consumata e le emissioni di gas serra ad essa collegate: è necessario consumare una quantità drasticamente inferiore di energia. Questo non significa che dovremmo morire di freddo in inverno o buttare il frigorifero dalla finestra, ma piuttosto che dobbiamo ridurre la produzione di merci. È probabile che non ci sia più nessuno nel movimento per il clima che non sappia che produciamo troppo, una quantità eccessiva di beni che costa risorse e la cui produzione emette CO2 nell’atmosfera.
Il fatto che si producano troppe cose, e che non poche finiscano nella spazzatura per stabilizzare i prezzi di mercato, viene anche definito crescita e rappresenta una delle caratteristiche fondamentali dell’economia capitalista. Se tutti sono in concorrenza tra loro, bisogna che tutti producano più velocemente e meglio, e soprattutto che vendano di più. Ma su un pianeta limitato non è possibile produrre e vendere sempre più velocemente, sempre meglio e sempre di più, proprio a causa della sua limitatezza. Almeno non senza distruggere le nostre basi ecologiche di sopravvivenza. Almeno non senza distruggere le fondamenta ecologiche della nostra sopravvivenza. Sono due le scelte che abbiamo: o sacrifichiamo queste fondamenta o sacrifichiamo il capitalismo.
È compito del movimento per la giustizia climatica e di tutte le forze democratiche tradurre lo slogan “Cambiare il sistema, non il clima” in termini concreti. Lo dobbiamo a noi stessi e alle generazioni future, ed è nostro compito costruire un movimento capace di lottare per il cambiamento del sistema. Non abbiamo altra scelta.
Sfruttare la guerra imperialista
Le guerre rientrano tra le azioni peggiori che gli uomini commettono l’uno nei confronti dell’altro. Allo stesso tempo, le guerre sono state spesso accompagnate da sconvolgimenti sociali e fasi rivoluzionarie. La Comune di Parigi è figlia della guerra, così come le Rivoluzioni di Febbraio e di Ottobre in Russia e, per fare un esempio più recente, la Rivoluzione del Rojava. Ogni guerra si porta con sé anche lo svelamento della moralità dei governanti che la conducono, e la collera delle masse che vi trovano la morte o che si impoveriscono perché ne sopportano i costi.
Ogni guerra è anche una guerra per le risorse, e sono i combustibili fossili come il petrolio e il gas che continuano ad alimentare la guerra. Il movimento per il clima deve quindi porsi il problema della guerra e della pace, così come il movimento contro la guerra, dove ancora esiste, deve farsi carico maggiormente delle questioni ecologiche. Anche in questo caso, possiamo collegarci al lavoro che organizzazioni come Ende Gelände stanno già svolgendo. L’Action Alliance ha annunciato anche quest’anno azioni contro le infrastrutture del gas.