Il ruolo dell’Italia nella strategia NATO

Dalla caduta dell’Unione Sovietica negli anni ’90, l’alleanza militare guidata dagli Stati Uniti, la NATO, sta ridefinendo il proprio ruolo e la propria posizione nel mutevole ordine mondiale, nella competizione con le altre forze egemoniche della modernità capitalista per il controllo delle società e dei territori.L’opuscolo dell’Accademia della Modernità Democratica, “Opportunità e pericoli della terza guerra mondiale”, chiarisce l’attuale momento di caos globale e fa luce sulle potenze coinvolte.

In questo articolo, esamineremo più da vicino il ruolo e la situazione dello Stato italiano nel corso della storia fino ad oggi, mentre la corsa globale agli armamenti raggiunge nuovi livelli. L’ultimo vertice NATO, tenutosi nel giugno 2025, si è concluso con un obiettivo senza precedenti per gli Stati membri: destinare il 5% del loro PIL alle spese militari.

L’Italia riveste un ruolo speciale nella strategia della NATO grazie alla sua posizione geostrategica, che le dà accesso al Mediterraneo e al Medio Oriente.Tuttavia, nella società italiana c’è una ferma opposizione a questa crescente militarizzazione, che ha radici in una lunga tradizione antimilitarista. Sulla base di questa tradizione, le forze democratiche si stanno mobilitando contro il bellicismo e alla ricerca di prospettive di pace e di organizzazione democratica. L’appello per la pace e una società democratica lanciato da Abdullah Öcalan il 27 febbraio ha aperto nuove prospettive in questa direzione, per il Medio Oriente e per tutto il mondo. Questo articolo si conclude provando ad analizzare il rapporto delle forze democratiche italiane con questo appello.

Come lo Stato italiano ha assunto un ruolo strategico per USA e NATO

Alla fine della seconda guerra mondiale è emerso un nuovo ordine mondiale che ha diviso il mondo in due blocchi: uno guidato dal capitalismo degli Stati Uniti e l’altro dal socialismo reale dell’Unione Sovietica. Questi due blocchi hanno combattuto per estendere i loro modelli politici e le loro zone di influenza durante tutta la guerra fredda. Le controparti militari di questi blocchi erano la NATO, fondata nel 1949, e il Patto di Varsavia, istituito nel 1955 e sciolto nel 1991. Fu proprio in quegli anni che all’Italia fu assegnato un ruolo strategico nell’alleanza militare occidentale.

Durante le fasi conclusive della Seconda Guerra Mondiale, nel momento di debacle del fascismo all’interno dello stato italiano, nello stesso momento in cui fioriva la resistenza, in quello stesso frangente Gran Bretagna prima e Stati Uniti subito dopo, sbarcati in Sicilia, iniziano a cooptare la dimensione militare di uno stato nazione sconfitto. In quegli anni si consolideranno quattro forme di potere che comporranno lo Stato italiano in forme sempre più intrecciate, e che in modi diversi combatterano le forze democratiche e le radici comunaliste della società nei territori italiani. Al fianco dell’esplicito potere della burocrazia statale si affermeranno il potere della massoneria/P2, il potere mafioso e quello dei servizi segreti italiani; con ognuno di questi, i servizi segreti (CIA) ed i politici statunitensi stringeranno rapporti strategici.

Senza entrare troppo nel dettaglio è importante sottolineare che, benché non ci siano prove documentali ufficiali, è opinione diffusa che i termini e le condizioni dell’approdo degli inglesi ed americani in Italia venne concordato con la mafia siciliana e che questo aprì le porte per l’apparato mafioso ad un salto di livello nell’intervenire nelle politiche statali italiane.

Più documentato, invece, è il ruolo dell’operazione GLADIO, messa in atto dalla CIA e dai servizi segreti italiani (SIFAR), per la creazione di una “stay-behind”1. Documentato è, anche, il ruolo che la P2, una loggia massonica italiana, assumerà dal ’45 in poi; sino a guidare la Gladio dal ’70 ed infiltrare ogni ambito economico e politico dello Stato Italiano. Parallelamente si sono svolti i rapporti diplomatici ufficiali tra USA e Italia, con tutti gli accordi istituzionali ed economici che ne sono derivati.

Questi quattro apparati, nel contesto della Modernità Capitalista, hanno accompagnato il passaggio dalla Seconda alla Terza Guerra Mondiale dello Stato Italiano attraverso le varie pratiche di guerra speciale: preparazioni di colpi di stato (Piano Solo, Golpe Borghese, Golpe Bianco) e stragi (Strage di Piazza Fontana, Strage di Bologna, ecc), destabilizzazione del paese (Strategia della tensione), uso e finanziamento dei partiti e movimenti di estrema destra, cooptazione dei mezzi di comunicazione, produzione e diffusione di contenuti culturali e di propaganda liberale ed antisociale, infiltrazione e lotta alle organizzazioni democratiche (la società italiana tra il ’60 e l’ ’80 espresse contemporaneamente il più grande partito comunista ed il più grande movimento extraparlamentare in Europa), e militarizzazione del territorio e della società.

La Guerra Fredda e la successiva ripresa dell’intervento diretto degli USA in Medio Oriente, a partire dalla Guerra del Golfo nel 1990, rappresentano fasi di accelerazione di questo processo. E’ così che l’Italia è passata dall’essere avamposto contro la potenziale espansione comunista ad assumere progressivamente il ruolo di grande piattaforma per le operazioni di proiezione USA e NATO in Europa, nel Mediterraneo e in Medio Oriente.

Le infrastrutture militari

Per fare in modo che lo Stato italiano assumesse questo ruolo strategico per USA e NATO è stata necessaria la progressiva costruzione di un apparato di infrastrutture diffuso ed articolato, composto da basi semplici e specializzate, centri di comando, poligoni di tiro, e così via. Il primo accordo ufficiale, ma molto era già avvenuto senza ufficialità negli anni precedenti, è avvenuto nel 1951. Questo prevedeva la costruzione di una base militare americana in territorio italiano (Camp Darby) in cambio dell’impegno americano a ricostruire tutto il sistema militare di comunicazione italiano.

Da quel momento si è arrivati ad oggi con la presenza di circa tredicimila soldati americani dislocati in120 siti, tra basi e varie infrastrutture, sia NATO che USA, di diversa natura e gestione, a cui si devono aggiungere 20 basi segrete degli Stati Uniti, la cui posizione non è nota per ragioni di sicurezza. Particolarmente rilevanti sono le basi in Sicilia, a Napoli, ad Aviano e Ghedi. In Sicilia si trovano la base di Sigonella, in cui si trova il comando di monitoraggio in tempo reale delle truppe a terra e da cui partono i droni di sorveglianza ed anche la base MUOS (Mobile User Objective System) una delle quattro basi dislocate sul globo che coordina il sistema di comunicazioni satellitari militari ad alta frequenza gestito dal Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti. A Napolihanno sede: uno dei due centri di comando della Nato (mentre l’altro è nei Paesi Bassi), la base dei sommergibili statunitensi nel mediterraneo ed il comando delle forze aeree e dei marines statunitensi. Infine, ad Aviano e Ghedi si trovano stanziate bombe atomiche B61-3, B61-4 e B61-7.

Come ci spiega bene il giornalista e peace researcher italiano Antonio Mazzeo2, il ruolo strategico delle basi dislocate sui territori dello stato italiano è presto reso chiaro dalle varie forme di partecipazione all’operazione agita in Iran lo scorso 21 giugno:

Dalla base di Camp Darby e dal porto di Livorno in Toscana sono stati inviati sistemi d’arma e munizioni alle truppe USA in Medio Oriente; i cacciabombardieri F-16 di US Air Force sono stati trasferiti dalla base di Aviano (Pordenone) al Golfo Persico; i grandi aerei cisterna, dopo essere decollati anch’essi da Aviano, hanno rifornito in volo i bombardieri strategici B-2 da cui sono state lanciate le superbombe contro i laboratori sotterranei iraniani; il comando della Marina Militare USA per l’Europa e l’Africa di stanza a Napoli Capodichino ha diretto e coordinato tutte le operazioni delle unità navali presenti nel Mediterraneo orientale e nel Mar Rosso per offrire ad Israele una “copertura” anti-Teheran; lo stesso comando  ha pianificato il lancio di un gran numero di missili da crociera Tomahawak contro l’Iran dal sottomarino nucleare “USS Georgia” di US Navy; gli aerei con e senza pilota decollati dalla base siciliana di Sigonella, prima, durante e dopo la notte del 21 giugno, hanno condotto innumerevoli attività di intelligence e riconoscimento dei “target” iraniani; sullo spazio aereo della Sicilia – in rotta tra Trapani e Catania, sono transitati i caccia F-22 “Raptor” che hanno scortato i B-2 nella loro missione di morte e distruzione”

Non solo Medio Oriente. Le basi sono trampolino di lancio anche verso l’Europa e solo pochi mesi fa, in Puglia, la Brigata Marina “San Marco” ha svolto un campo di addestramento delle unità anfibie d’élite delle forze armate ucraine.

La tradizione e la cultura antimilitarista nei territori dello stato italiano

Sebbene la presenza militare NATO e statunitense sia così esplicita, e sebbene anche l’esercito italiano ne giovi, usufruendo di alcune di queste basi e coopartecipando ad eserecitazioni ed eventi di vario tipo, negli anni la cultura militarista non è riuscita ad attecchire nella società dei territori italiani, che ha dimostrato un livello di disaffezione al nazionalismo ed alla partecipazione militare rilevante. L’opera di unificazione nazionale ed il processo di omogeneizzazione sotto un unico stato non è stata un’opera ben riuscita per lo stato italiano, la disaffezione alla “patria” è stato spesso il sentimento prevalente3. Sarà interessante approfondire questo aspetto in futuro.

Tornando alla cultura militare in periodi più recenti, possiamo dire che già dalla Prima Guerra Mondiale, in Italia si registrarono quasi cinquecentomila casi di renitenza alla leva ed oltre un milione gli espisodi di insubordinazione. Disertori e renitenti della guerra 1915-18 furono così numerosi che fu necessaria un’amnistia, promulgata nel 19194. Durante la Seconda Guerra Mondiale i numeri non furono da meno, su 180mila giovani in età di leva si presentarono solo 87mila. Tutti gli altri si nascosero o si unirono alle formazioni partigiane.

Finita la Seconda Guerra Mondiale, i movimenti sociali di massa assunsero un ruolo centrale nella società italiana, disincentivando la cultura nazionalista e militarista anche in antitesi alle idee del ventennio fascista. Ispirate da due grosse correnti, quella marxista-anarchica e quella cattolica, le idee pacifiste ed internazionaliste hanno avuto una particolare rilevanza nella storia delle forze democratiche in Italia arrivando nel 2005 all’ abolizione del servizio militare di leva obbligatoria.

Da quel momento la composizione delle forze militari si riduce numericamente e muta nella composizione. Infatti ad arruolarsi sono prevalentemente giovani del Sud Italia, circa il 70%, spinti, più che da questioni ideologiche e culturali, dalla ricerca di un lavoro stabile, andando così a lavorare nelle varie basi ed infrastrutture militari italiane dislocate prevalentemente al Nord. E’ interessante notare, però, che a non mutare è la composizione delle posizioni di comando nelle sfere militari, composte invece da militari provenienti dalle regioni settentrionali. A dimostrazione di una mentalità coloniale ben radicata nella storia del processo di unificazione dello Stato italiano.

Non possiamo quindi dare tutti i meriti all’azione di propaganda delle forze democratiche in Italia, è importante riconoscere radici democratiche culturali e sociali profonde, che ancor oggi resistono alle forme disgregative della Modernità Capitalista. Dati recenti ci parlano di una società, in Italia, contraria non solo alla guerra ma persino all’aumento delle spese militari: un unicum in Europa secondo il sondaggio commissionato dal European Council on Foreign Relations (ECFR), effettuato nel giugno 2025 in tutti i paesi europei5.

Alla domanda sulla propenzione della popolazione alle politiche di aumento della spesa militare i dati nel resto d’Europa ci mostrano tra il 70% e il 40% degli intervistati favorevoli, in tutti i paesi le percentuali dei favorevoli sono maggiori dei contrari. In tutti i paesi tranne che in Italia, dove la società si è espressa per il 17% favorevolmente all’aumento della spesa militare, e per il 58 % contraria. Dati che, per quanto parziali e per quanto frutto di una specifica agenzia non possono non destare il nostro interesse.

La militarizzazione della società

Non possiamo dire, al contempo, che nel contesto di terza guerra mondiale lo Stato italiano non abbia preso delle contromisure. Dalla fine della IIWW assistiamo ad una progressiva disintegrazione della società e perdita dei suoi fondamenti etici e, al tempo stesso, alla polarizzazione di questa in posizioni che appaiono come contraddittorie (destra-sinistra) ma che, in verità, stanno dentro lo stesso paradigma. Liberalismo e consumismo hanno permeato la società, investendo le generazioni nate dopo il ’45, sfilacciando il legame con la cultura popolare e contadina ed erodendo progressivamente le capacità organizzative della società e le sue espressioni democratiche. Questo lavoro ideologico ha eroso la capacità di resistere, aprendo le porte ad una sempre più esplicita propaganda militarista.

Questa propaganda, ha negli anni, battuto su vari fronti: la presenza nelle scuole e nelle università, la produzione di film e serie e la presenza dei militari nei talkshow, la proposizione dell’esperienza militare come solida posizione lavorativa prima e momento per superare i propri limiti e vivere nuove avventure oggi. La militarizzazione del sistema educativo italiano è un processo che sta investendo le scuole di ogni ordine e grado, da quelle dell’infanzia alle università, in ogni parte del paese. Ormai non c’è attività didattica che non veda salire in cattedra rappresentanti delle forze armate (non soltanto quelle italiane, ma anche quelle USA e NATO) e dei manager delle grandi e piccole aziende del comparto bellico-industriale. Una fase storica segnata dalla guerra permanente non poteva purtroppo risparmiare i luoghi di formazione delle nuove generazioni, così come è avvenuto durante il fascismo quando la pedagogia del regime aveva l’obiettivo di imporre il massimo consenso al regime ed alle scelte belliciste.

Anche se progetti specifici esistevano anche prima, negli ultimi dieci anni sono stati firmati protocolli ufficiali, il primo a livello nazionale è del 2014, e definiti accordi quadro tra i ministeri dell’Istruzione e della Difesa. E’ stato coinvolto anche il ministero del Lavoro, integrando il comparto militare-industriale nei percorsi di alternanza scuola-lavoro, oggi PCTO, che prevedono per gli studenti esperienze formative e propedeutiche al mondo del lavoro sia direttamente in basi e infrastrutture militari sia dentro le maggiori aziende belliche.

Educati alla cultura militare-aziendale a scuola, i giovani sono costantemente attaccati e criminalizzati come categoria nella vita quotidiana; l’esempio più palese si è avuto durante il covid a cui ai “giovani” venne additata la responsabilità dei contagi. Definiti inutili, dannosi e bamboccioni ai giovani è proposta la carriera militare come momento di avventura e come strumento di emancipazione dalla famiglia, soprattutto per le giovani donne.

Parallelamente la diffusione di serie e film direttamente finanziati dal Ministero, dai comparti militari e dalle aziende belliche come Leonardo S.p.a. è cresciuta esponenzialmente. Proprio queste aziende hanno visto, nel contesto di WWIII, a partire dagli anni ’50, moltiplicare i propri incassi, raggiungendo cifre inimmaginabili, ed i numeri sono destinati a salire.

Negli ultimi dieci anni l’aumento delle spese militari in Italia è salita più del 60% ma adesso siamo di fronte ad una impennata senza precedenti. Gli accordi presi dal governo con l’Europa e la Nato, che vedrà aumentare la spesa militare al 5% del GDP da qui al 2035 significano che l’Italia dovrà investire 400 miliardi di euro nel comparto militare, una spesa che corrisponde a tre volte la spesa attuale per il sistema sanitario. “Sonoimpegni importanti che l’Italia rispetterà. Non lasceremo l’Italia esposta debole e incapace di difendersi”ha dichiarato la presidente del Consiglio Giorgia Meloni.

Un governo, quello a guida Meloni, che ha da subito mostrato pieno asservimento al Patto Atlantico ed alle richieste statunitensi, discostandosi in maniera decisa da una narrazione patriottica della cultura dell’estrema destra italiana de “l’Italia prima di tutto”. Oggi come allora risulta difficile portare avanti la militarizzazione attraverso il claim dell’ “orgoglio nazionale”. La propaganda si concentra, ancora una volta, su possibili pericoli esterni ed interni, e per questo la necessità di militarizzazione e controllo. Sul piano interno è interessante notare come, nel contesto di Terza Guerra Mondiale, col recente “Decreto sicurezza” si intenda render ancor di più esplicito il ruolo dei servizi segreti, liberandoli da potenziali indagini. Il decreto intrudice la possibilità esplicita per i servizi di agire non solo come attori d’indagine ma come veri e propri strumenti di destabilizzazione, prendendo ladirezione o formando associazioni con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell’ordine democratico.

Proprio a “protezione” dai pericoli esterni ma soprattutto interni, dal 2008 con l’operazione “strade sicure” tutte le principali città d’Italia sono costantemente pattugliate direttamente dall’esercito, presente con presidi fissi nelle piazze e vicino le sedi istituzionalie e con mezzi di perlustrazione delle strade. La presenza massiccia di militari italiani e spesso di militari USA-NATO nella quotidianità della vita sociale ha visto crescere i casi di molestie a danno delle donne. La cultura patriarcale impregna il cameratismo militare che sfocia nella “cultura dello stupro”. Esempio più palese si è avuto nel corso della recente adunata degli alpini, con ben 150 casi di molestie denunciati in tre giorni.

Il ruolo delle forze democratiche e l’ appello del 27 febbraio

In questo quadro, le forze democratiche non si può dire certamente che stiano a guardare, provando a sviluppare svariati meccanismi di difesa, sebbene non sempre efficaci. L’operazione di militarizzazione della società, dei territori e la guerra come scenario permanente sono stati e sono adesso temi al centro del dibattito e dell’agire.

Negli anni, innumerevoli sono state le mobilitazioni contro la costruzione o la presenza di basi militari e per la pace. Tra le più importanti: le marce Perugia-Assisi, convocate dall’area pacifista cattolica ma non solo, la prima avvenne nel ’61, l’ultima nel 2022; la mobilitazione durata tre anni (1981-83) contro l’istallazione di missili a testata nucleare nella base di Comiso (Sicilia); nel 2003 la più grande manifestazione per la pace mai vista in Italia, in antitesi all’invasione dell’Iraq, in cui dietro lo striscione di apertura “Fermiamo la guerra senza se, senza ma” sfilarono 3 milioni di manifestanti; le due invasioni di massa della base MUOS in Sicilia e le attuali mobilitazioni contro le basi in Sardegna ed a Coltano (Toscana). Se è vero che nessuna di queste mobilitazioni è mai riuscita a fermare definitivamente la costruzione di basi o impianti, queste hanno giocato un ruolo fondamentale nel rallentarne i lavori e nell’allargamento dell’opposizione alla cultura militarista nel tessuto sociale. Anche il variegato mondo delle associazioni ed organizzazioni ecologiche ed ambientaliste si è schierato ripetutamente all’interno di questa lotta contro la guerra, spesso a partire dall’impatto mortifero che le azioni belliche, gli impianti di produzione e le basi hanno sull’ecosistema e sulla natura. In periodi più recenti dentro il mondo dell’istruzione, tra docendi e genitori, è nato uno strumento di informazione ed autodifesa chiamato “Osservatorio contro la militarizzazione della scuola e dell’università”, che da un lato mappa i tentativi di portare la cultura militare dentro gli istituti, dall’altro fornisce strumenti legali per impedirne gli eventi, la cui realizzazione, se combattuti per tempo, si è riusciti spesso ad impedire.

L’acuirsi del genocidio dei palestinesi ha allargato molto il fronte per la pace. Se, all’indomani del 7 ottobre, il dibattito pubblico e nelle forze democratiche si era concentrato sulla legittimità o meno di quella giornata e della reazione israeliana, dopo due anni del genocidio più documentato nella storia dell’umanità la situazione è cambiata. Le mobilitazioni messe in atto delle forze democratiche e la situazione critica di Gaza hanno costretto esponenti politici di tutti colori a condannare il genocidio, quantomeno a parole. Questa apertura ha potuto far allargare il dibattito sulla guerra, sull’uso delle basi sul territorio italiano per le guerre in corso e sul ruolo che le aziende belliche italiane hanno nello scenario di WWIII. La diffusione di “acampade” dentro le università ha rinvigorito la partecipazione studentesca all’opposizione alle politiche di guerra e genocidiarie, ed è stata occasione per la creazione di momenti di informazione e dibattito per una maggiore comprensione della centralità del Medio Oriente nel contesto della WWIII.

Anche l’ “appello alla pace ed a una società democratica” del 27 febbraio è stato occasione di dibattito per le forze democratiche in Italia. Mentre gran parte della società è stata raggiunta da questo messaggio solo grazie alla comunicazione dei media mainstream, che hanno riportato la visione dello stato turco, o comunque letto le parole di Ocalan attraverso la lente del sistema della Modernità Capitalista, quindi rappresentando questo passaggio storico come semplicemente una vittoria sul terrorismo, diversamente è avvenuto nei contesti delle organizzazioni politiche. La maggior parte delle forze democratiche, soprattutto nei movimenti di sinistra, partiti e associazioni in quest’orbita, hanno manifestato diversi dubbi e difficoltà a comprenderne il significato profondo, ma con un approccio di curiosità. Curiosità che si è mostrata anche nel mondo dell’attivismo e pacifismo di matrice cattolica. E’ sicuramente mancata una adeguata comunicazione durante tutte le fasi antecedenti alla pubblicazione del messaggio, facendolo recepire come un “fulmine a ciel sereno”. Questo ha spiazzato molto e nelle frange provenienti dalle aree marxiste più ortodosse ha prodotto la percezione di un tradimento ed una rinuncia alla lotta. Tuttavia, tutte quelle parti delle forze democratiche che si ispirano alle idee del Movimento di liberazione del Kurdistan, e che ne seguono gli sviluppi con più costanza, hanno accolto con l’appello e manifestato l’interesse per comprendere tutta la profondità del passaggio storico e raccoglierne la sfida.

Non si può non dire quindi che la WWIII non sia al centro del dibattito e delle preoccupazioni della società e delle forze democratiche in Italia. Questo si esprime in diverse forme. Le forze politiche parlamentari prendono occasionalmente posizione sugli sviluppi geopolitici ma con poca volontà di trasformare queste posizioni in qualcosa di concreto. Le organizzazioni politiche extraparlamentari, come i centri sociali, i movimenti territoriali, le organizzazioni ecologiste e le associazioni culturali, costruiscono costantemente manifestazioni ed eventi, ma con difficoltà a convergere in momenti unitari. I piccoli e medi comitati di abitanti (contro basi militari, progetti industriali o opere statali antiecologiche e imposte sui territori e sulla vita delle persone), di cui l’Italia è piena agiscono per coinvolgere la società in spazi di attivazione e partecipazione e le istituzioni in prese di posizione ufficiali. Potremmo definire i comitati come lo strumento principale che la società nei territori in Italia utilizza, ad oggi, per organizzarsi e difendersi. Molto interessante è, infatti, il processo in corso, in cui i piccoli comuni prendono posizioni ufficiali contro la guerra, le basi militari, l’aumento della spesa militare. Queste decisioni, pur non avendo nessuna incidenza sul governo nazionale, rappresentano l’espressione di un uso proficuo degli spazi democratici nei territori e ripropongono la volontà decisionale che la società esprime dentro e contro lo Stato. Purtoppo, privi di strumenti ideologici ed isolati, questi comitati vengono schiacciati sotto il peso di nemici potenti come la NATO. In generale le forze democratiche nei territori italiani faticano a costruire spazi di unità e confronto, nonostante lo si ritenga necessario.

Se lo Stato italiano gioca un ruolo strategico nelle politiche Nato e nelle operazioni militari della WWIII, non può altrimenti giocare un ruolo strategico nel processo di pace. In quest’ottica indagare e riscoprire la cultura antimilitarista e non statalista della società dei territori dello stato italiano sarà un passaggio fondamentale così come mettere in pratica capacità democratiche e di convergenza perché ci si opponga al sistema della società di guerra per la vita libera dei popoli in una società democratica.

Note

  1. The term “stay-behind” refers to a paramilitary organisation set up by a state within its own territory or in another state for the purpose of carrying out operations to gather information for intelligence purposes, propaganda among the population, sabotage, preparing surprise attacks, supporting military operations, kidnapping or eliminating key people, and aiding insurrections, even coups.
    Stay-behind groups were created by NATO during the Cold War, with or without the consent of the parliament of the state in which they operated, for anti-communist purposes (SDRA9 in Belgium, Absalon in Denmark, Aginter in Portugal, I&O in the Netherlands, ROC in Norway, LOK in Greece, TD BDJ in Germany, Gladio in Italy, etc.).
    In 1990, Italian Prime Minister Giulio Andreotti admitted the existence of Gladio. Its official establishment dates back to 1956, but the memorandum of understanding contained explicit references to pre-existing agreements. ↩︎
  2. US bases in Italy and the war on Iran. Meloni’s lies. ↩︎
  3. Italy has long been a collection of local autonomies and regional identities, often dominated by foreign powers, with deeply rooted local languages, cultures and traditions. Unification, which took place relatively quickly and through military conquest, was never able to create a strong sense of common belonging. What was created was a colonial model of the North over the South and the islands. This extractive policy created tensions and divisions that still persist today. The strong centralisation of the Italian state during the Risorgimento and fascism exacerbated feelings of resentment and rejection of a national sentiment. ↩︎
  4. Mario Isnenghi, Giorgio Rochat, La grande guerra, Milan, Il Mulino, 2014, ISBN 978-88-15-25389-7.
    Antonio Gibelli, L’officina della guerra. La grande guerra e le trasformazioni del mondo mentale, Turin, Universale Bollati Boringhieri, 2007 [1991], ISBN 88-3391-821-1. ↩︎
  5. ECFR survey, Trump’s European revolution. ↩︎