La guerra di Gaza ha scosso l’equilibrio politico del Medio Oriente. ADM analizza gli ultimi sviluppi nella regione e traccia le prospettive di soluzioni democratiche.
Con la guerra in corso a Gaza e in Israele dall’inizio di ottobre 2023, il cosiddetto “conflitto mediorientale” è tornato al centro dell’opinione pubblica e della politica internazionale. Si teme una reazione a catena e una deflagrazione nella regione. Con oltre 30.000 civili morti a Gaza a causa degli attacchi genocidi dell’esercito israeliano, aumentano le richieste di porre fine alla guerra di Gaza e diversi attori regionali e internazionali presentano piani per una pace sostenibile in Medio Oriente. Eppure, le realtà storiche e sociali della regione sono poco considerate. L’avvertimento del principale teorico e leader del movimento di liberazione curdo Abdullah Öcalan, secondo cui “la più grande catastrofe per una società è perdere il potere di riflettere su sé stessa e di agire in modo indipendente” (1), è particolarmente pertinente alla luce degli ultimi sviluppi e delle discussioni sulla guerra di Gaza. Per le società mediorientali, l’ultima escalation è la continuazione di una guerra e di un conflitto che dura da molto tempo. In Kurdistan e in Palestina, in particolare, una guerra prosegue ininterrotta da cento anni.
Il Medio Oriente come centro della Terza Guerra Mondiale
Le crisi e le guerre attuali, soprattutto in Medio Oriente, ma anche a livello internazionale, sono classificate dal movimento di liberazione curdo nel quadro concettuale e teorico della “Terza guerra mondiale”: “Se rompiamo il paradigma orientalista, vediamo che la fine della Guerra fredda ha significato per il Medio Oriente il salto della guerra calda a un livello superiore. Il fatto che la Guerra del Golfo abbia avuto luogo nel 1991, un anno dopo la fine della guerra fredda, conferma questa tesi”. (2) In questa guerra cambia la priorità delle aree geografiche, ma la guerra viene condotta in varie forme in molte regioni contemporaneamente. A volte al centro della scena è la diplomazia (soft power), a volte la violenza (hard power). Anche la guerra in Ucraina, in corso dal 2022, rientra in questo quadro. Con l’attacco della Russia all’Ucraina, la Terza guerra mondiale ha lasciato per la prima volta i confini del Medio Oriente. Tuttavia, gli ultimi sviluppi a Gaza-Israele indicano che il centro della guerra sarà ancora una volta il Medio Oriente. Questa Terza guerra mondiale, che dura da quasi 35 anni, può essere spiegata anche come un processo di riorganizzazione globale in corso dal crollo dell’Unione Sovietica. In questo quadro, strategie come il “Greater Middle East Project” (GME) si basano principalmente sul ripulire il Medio Oriente dalle potenziali minacce agli Stati Uniti e all’Occidente, sul controllo delle risorse energetiche e dei corridoi energetici e sulla garanzia della sicurezza di Israele.
La Terza guerra mondiale può essere suddivisa in quattro fasi, in cui hanno influito e influiscono interessi e attori diversi. In linea con gli obiettivi sopra menzionati, gli Stati Uniti hanno iniziato questa guerra con la Guerra del Golfo nel 1991 e l’espansione del loro potere militare e politico con l’invio di decine di migliaia di soldati nella regione. Nella seconda fase, gli Stati Uniti e i loro alleati sono intervenuti in Afghanistan e in Iraq. In questo periodo ha avuto luogo anche il complotto internazionale (3) contro Abdullah Öcalan, il leader del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK). Questo complotto aveva lo scopo di indebolire l’influenza del movimento di liberazione curdo in Medio Oriente. Ciò sottolinea l’importante ruolo geopolitico e geostrategico del Kurdistan in questa guerra. La terza fase è iniziata con la cosiddetta “primavera araba”, nel corso della quale i popoli del Medio Oriente sono entrati sulla scena politica come soggetto centrale per la prima volta nell’era moderna. Questa sollevazione sociale, iniziata in Tunisia il 17 dicembre 2010, ha portato a un cambiamento radicale dell’equilibrio di potere nella regione. Da allora, le strutture di sicurezza, economiche e politiche esistenti nella regione hanno subìto un processo di cambiamento irreversibile. Gli interventi esterni delle potenze globali nei conflitti e nelle lotte politiche emerse dopo la Primavera araba hanno ulteriormente complicato le già complesse relazioni regionali. In Siria, Yemen, Iraq e Libia, in particolare, continua l’aspra lotta tra i poteri locali, mentre parallelamente potenze globali come Stati Uniti, Cina e Russia sono coinvolte in un’aspra lotta di potere nella regione. Queste lotte di potere tra molti attori rendono il processo molto complicato. La quarta fase della Terza guerra mondiale, invece, è caratterizzata soprattutto dalle dispute per il dominio delle risorse energetiche e dei corridoi energetici. Anche l’attuale guerra tra Hamas e lo Stato israeliano può essere vista manifestamente come parte della Terza guerra mondiale.
Guerre energetiche in Medio Oriente
Nel contesto del processo di riorganizzazione globale, l’egemonia statunitense si sta sgretolando e cresce l’influenza di Stati come Cina, Russia, India, ecc. e di comunità di Stati come i BRICS. Nello sviluppo di un ordine mondiale multipolare, anche le rotte commerciali e i corridoi energetici sono in fase di riorganizzazione e i Paesi del Medio Oriente vogliono partecipare a questo processo di negoziazione delle nuove principali rotte commerciali e dei corridoi energetici tra Asia ed Europa. Il Medio Oriente è così tornato a essere un campo di competizione tra i principali attori del sistema globale, ovvero Cina, Stati Uniti e Russia. A differenza delle prime fasi della Terza guerra mondiale, non si può (ancora) parlare di trend militare. Negli Stati Uniti si osserva una tendenza a ritirare le truppe americane e a costruire meccanismi di difesa attraverso attori locali. Il conflitto si sta quindi svolgendo a livello di competizione economica. La domanda chiave per gli attori internazionali è se la Cina o l’India saranno i principali protagonisti di questo scambio. Attualmente, gli Stati Uniti intendono assicurare il flusso di beni e servizi verso l’Occidente attraverso l’India contro la Cina e rafforzare l’India a questo scopo. La Cina, invece, che in passato ha mostrato scarso interesse per il Medio Oriente, di recente è diventata un attore in ascesa nella regione. Oltre alle iniziative politiche, la Cina ha ora effettuato seri investimenti economici in ampie zone del Medio Oriente, dall’Egitto alla Siria e agli Stati del Golfo. La sicurezza energetica è diventata molto importante per la Cina, che nell’ultimo decennio è diventata il secondo importatore di petrolio al mondo. La competizione tra Cina e Stati Uniti per il controllo delle risorse energetiche globali e delle rotte di transito sta quindi diventando sempre più evidente. La battaglia per le risorse energetiche e le vie di transito tra Cina e Stati Uniti non si svolge solo in Medio Oriente, ma anche in Asia centrale, nel Caucaso, in Africa e in Sud America.
Un’espressione concreta di questa competizione per il Medio Oriente è il tentativo di minimizzare l’impatto del progetto cinese di una moderna Via della Seta nella competizione globale. Questo è stato annunciato all’ultimo vertice del G20 del 9 e 10 settembre 2023 nella capitale indiana Nuova Delhi dai Paesi partecipanti al Corridoio economico India-Medio Oriente-Europa (IMEC) (4). Il progetto partirà da Mumbai, in India, passando per gli Emirati Arabi Uniti, l’Arabia Saudita e la Giordania fino al porto israeliano di Haifa, per poi raggiungere il continente europeo attraverso Cipro meridionale fino al porto greco del Pireo e da lì, attraverso l’Europa orientale, fino al porto tedesco di Amburgo. L’India, l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti, l’Italia, la Francia, la Germania, gli Stati Uniti e l’Unione Europea – le parti di questo accordo – hanno lanciato il progetto firmando un memorandum d’intesa. Questo progetto sminuisce l’importanza geopolitica della Turchia e ha portato i rappresentanti dello Stato turco a minacciare apertamente che: “La Turchia potrà pure non essere un game changer nella regione, ma può sempre disturbarla!”. Dietro a conflitti come la guerra del Nagorno-Karabakh, ci sono quindi anche gli sforzi del governo turco per aprire nuove rotte commerciali attraverso la Turchia e l’Asia centrale.
La mancanza di speranza dello Stato nazione
Mentre questi conflitti e guerre interstatali sono incentrati sulla ricerca di egemonia per assicurarsi corridoi energetici e risorse, sono le società della regione a soffrire. Per poter sviluppare soluzioni democratiche, bisogna innanzitutto che i responsabili di questo cimitero di culture e popoli siano identificati e chiamati a risponderne. Per Öcalan, è chiaro che la fonte di rassegnazione sono gli stessi Stati nazione: “Non avremo mai parlato abbastanza dell’imposizione dello Stato nazione, che sta facendo a pezzi la cultura mediorientale coltellate. Giacché il più incurabile dei traumi subiti è stato provocato da questo coltello. (…) La ferita continua a sanguinare. Guardiamo al conflitto quotidiano tra indù e musulmani in India, ai massacri in Kashmir, nella regione uigura della Cina, in Afghanistan e in Pakistan, alla lotta sanguinosa dei ceceni e di altri in Russia, ai combattimenti in Israele/Palestina, in Libano e in tutti i Paesi arabi, ai conflitti dei curdi con i turchi, arabi e persiani, le lotte settarie in Iran, i massacri etnici nei Balcani, lo sterminio di armeni, greci e siriaci in Anatolia – si può forse negare che gli innumerevoli conflitti e guerre prive di regole in corso come queste sono un prodotto della ricerca capitalistica dell’egemonia?” (5)
La realtà culturale della regione è in contrasto con il modello di Stato-nazione importato dall’Occidente. All’origine di questo ordine di Stati-nazione sta l’Accordo Sykes-Picot, firmato più di cento anni fa, il 16 maggio 1916, tra Gran Bretagna e Francia per la spartizione dell’Impero Ottomano dopo la Prima Guerra Mondiale. Sono state le forze della modernità capitalista a disegnare il Medio Oriente sulla base degli Stati nazione, senza tenere conto degli interessi e dei problemi dei popoli della regione. Nel tracciare i confini, Gran Bretagna e Francia hanno tenuto conto soprattutto delle ricche risorse idriche e petrolifere della regione, trascurando la diversità dei popoli. L’ordine stabilito in Kurdistan e in Palestina è quindi espressione di questo intervento concreto della modernità capitalista. L’ordine stabilito in Medio Oriente si basa sulla negazione del diritto all’autodeterminazione di entrambi questi popoli. È per questo motivo che gli sviluppi positivi e negativi in Kurdistan e Palestina hanno un impatto sull’intera regione. La lotta di entrambi i popoli per le conquiste democratiche e di libertà scuote al cuore l’ordine genocida e colonialista del Medio Oriente. La fondazione dello Stato di Israele, che ha portato a un’escalation dello storico conflitto arabo-ebraico e all’emergere della questione palestinese, è strettamente legata alla politica mediorientale delle forze della modernità capitalista. Dopo tutto, una delle pietre miliari dell’ordine stabilito in Medio Oriente è l’esistenza e la sicurezza dello Stato di Israele. Anche l’emergere della questione curda e della sua mancata risoluzione è un prodotto dell’approccio dello Stato-nazione. Anche altri problemi, come il conflitto sul Nagorno-Karabakh e il genocidio armeno, si basano sull’approccio dello Stato-nazione.
Senza superare l’approccio dello Stato-nazione in Medio Oriente, non sarà possibile risolvere questi problemi in modo accettabile. Gli ultimi sviluppi a Gaza dimostrano che i problemi irrisolti potrebbero far precipitare in qualsiasi momento l’intera regione in una guerra. Lo stesso vale per la cosiddetta questione curda. La mentalità dello Stato-nazione e le politiche dello Stato turco contro la società e il movimento di liberazione curdo causano tensioni, conflitti e guerre permanenti. A differenza del conflitto israelo-palestinese, la profondità di questo conflitto è ancora più complessa. Öcalan avverte che: “Se la corrente nazionalista-statalista avrà il sopravvento in Kurdistan, non si produrrà un solo nuovo conflitto israelo-palestinese, ma quattro”. Queste contraddizioni nella regione ricordano un vulcano attivo che sta per eruttare. I nazionalismi in Medio Oriente hanno portato a un vicolo cieco e hanno causato molto sangue e sofferenza.
La Confederazione democratica del Medio Oriente
La soluzione del problema arabo-israeliano, come quella della questione curda, dipende in larga misura dalla pace e dalla democratizzazione della regione. Il fatto che i problemi non possano essere risolti dallo Stato nazione, ma siano invece esacerbati da esso, è perfettamente illustrato dal conflitto arabo-ebraico. Finché l’Islam e l’Ebraismo non saranno liberati dal quadro del potere e dello Stato, non potranno riconciliarsi. Finché si ostineranno a essere forze di potere e di Stato, entrambi vedranno la loro esistenza nella distruzione dell’altro, come hanno fatto nel corso della Storia. Secondo Öcalan, qualsiasi sistema che voglia cogliere l’opportunità di offrire una soluzione per il Medio Oriente deve quindi prima di tutto condurre un confronto ideologico di successo contro il nazionalismo, il sessismo, il fanatismo religioso e il positivismo. Ciò che occorre è lo sviluppo di diverse attività sociali democratiche non orientate allo Stato e alla liberazione dell’individuo, che si concentrino sul potere e sulla cultura statale. Öcalan vede la soluzione in una “confederazione di nazioni democratiche” (6) oltre gli approcci orientati allo Stato e al potere, in cui tutte le identità culturali conducano una vita pacifica come membri di una società egualitaria, libera e democratica. Questa “Confederazione democratica del Medio Oriente” non è vista come un’utopia o un programma politico per il futuro, ma come un progetto che deve essere costruito passo dopo passo in tutti i settori. Ha un effettivo radicamento sociale e anche le dinamiche della fase politica offrono il potenziale per un risveglio democratico. Il fatto che i movimenti democratici e le forze sociali organizzate, con mosse piccole ed efficaci, possano costruire in breve tempo qualcosa che determinerà il futuro a lungo termine, è dimostrato dallo sviluppo del confederalismo democratico in Kurdistan e dal nuovo ordine sociale che si è instaurato da oltre dieci anni nell’Autogoverno democratico della Siria del nord e dell’est (Rojava).
Il contratto sociale: una nuova pietra miliare nella regione
Un nuovo contratto sociale (7) è stato ratificato il 12 dicembre 2023, con l’obiettivo di rendere giustizia agli sviluppi degli ultimi undici anni e rappresenta un passo significativo verso il consolidamento del modello democratico di società in Rojava. Il contratto sociale tiene conto di tutte le identità etniche, religioni, confessioni, lingue, culture e visioni del mondo. Mentre gli approcci nazionalisti-statalisti propagandano la soluzione della separazione e della divisione, l’approccio democratico-confederale ha nuovamente riunito i popoli per stabilire una vita comune basata sull'”unità nella diversità”. Questo risveglio democratico in corso nel Nord e nell’Est della Siria non rappresenta solo una prospettiva concreta per la soluzione dei problemi sociali in Siria e un’ispirazione per le società dell’intera regione che resistono. Per gli Stati nazione della regione e gli attori internazionali che perseverano nell’ordine costituito, questa prospettiva rappresenta anche un pericolo, poiché mostra di cosa sono capaci le società che hanno la forza di badare a loro stesse e di agire in modo indipendente. Non sorprende quindi che i crimini di guerra commessi dall’esercito turco siano ignorati a livello internazionale. Questo nonostante l’ex capo dell’intelligence turca e attuale ministro degli Esteri Hakan Fidan abbia apertamente annunciato all’inizio di ottobre dello scorso anno che l’intera infrastruttura nel nord e nell’est della Siria era un “obiettivo legittimo” delle forze di sicurezza, dell’esercito e dei servizi di intelligence.
I crimini di guerra come paradigma di politica estera
Gli ultimi attacchi dello Stato turco in varie parti del Kurdistan fanno parte di una cronaca di violenze che osserviamo in particolare dal 2015, ovvero dalla sconfitta elettorale del governo dell’AKP e dalla cancellazione unilaterale dei colloqui di pace con il PKK. Il governo turco ha posto fine a tutti i negoziati con Öcalan e il movimento curdo nel 2015 e da allora ha perseguito una politica di annientamento militare. Con la decisione del governo Erdoğan di entrare in guerra, è entrato in vigore il piano “Çökertme” (“piano di decomposizione”), ossia l’offensiva politico-militare per schiacciare il movimento di liberazione curdo. In questo contesto, la questione curda non viene trattata come un problema sociale, ma come una questione di sicurezza. Dopo che nell’autunno 2016 lo Stato turco ha potuto dotarsi della tecnologia dei droni con l’aiuto di diversi Paesi della NATO, nell’aprile 2017 l’ex ministro degli Interni Soylu ha dichiarato che nel prossimo futuro non si sarebbe più parlato del PKK.
In questo contesto, lo Stato turco ha lanciato una guerra su più fronti contemporaneamente, che continua tuttora. Nel Kurdistan settentrionale, il vero e proprio terrorismo di Stato turco si sta scatenando contro la società curda e le sue istituzioni politiche, in particolare contro il Partito Popolare per l’Uguaglianza e la Democrazia (DEM). Oltre diecimila attivisti, politici, attiviste per i diritti delle donne e giornalisti sono in prigioni politiche. Tuttavia, la politica di guerra dello Stato turco contro il movimento di liberazione curdo non si limita al Kurdistan settentrionale e alla Turchia. Una dimensione centrale del “piano di decomposizione” è la nuova dottrina di politica estera della Turchia, che consiste nel condurre la guerra principalmente al di fuori del proprio territorio statale. Oltre al Kurdistan settentrionale, il governo guidato da Erdoğan sta intensificando la guerra nel Kurdistan meridionale (Iraq settentrionale) e nel Rojava. Negli ultimi nove anni, migliaia di civili curdi e membri delle forze di autodifesa sono stati vittime di questi attacchi, giustificati dai militari turchi con il ricorso al tema del “terrorismo”. Le operazioni militari che violano il diritto internazionale e i crimini di guerra sono diventati il paradigma della politica estera della Turchia in Kurdistan.
L’isolamento della politica curda
Un’altra dimensione della strategia dello Stato turco, in atto dal 2015, è l’isolamento della politica curda a tutti i livelli. La strategia è stata avviata con il totale isolamento di Öcalan sull’isola-prigione di Imrali. Dal 25 marzo 2021, gli è stato negato l’accesso a tutti i mezzi di comunicazione e di contatto con il mondo esterno, compresi i suoi avvocati e la sua famiglia. Da quasi tre anni, questa forma di detenzione è praticata dallo Stato turco come detenzione illegale in regime d’isolamento (8) e simboleggia politicamente, tra le altre cose, il rifiuto di un processo di pace e l’insistenza sull’annientamento e la negazione dell’esistenza curda. A partire da Imrali, questo isolamento viene applicato a tutte le carceri e a tutti i settori della vita politica in Turchia. La politica estera della Turchia mira anche a isolare le aree del Kurdistan che si organizzano secondo il paradigma del confederalismo democratico. Che si tratti dell’embargo in corso contro la rivoluzione in Rojava, dell’accerchiamento del campo profughi autogestito di Mexmûr nel Kurdistan meridionale e della continua minaccia alla principale area di insediamento degli Yezidi Şengal, in tutte queste aree si cerca di realizzare i principi della democrazia radicale, della liberazione delle donne e dell’ecologia. L’isolamento mira a soffocare questi esempi di organizzazione sociale di base e a nasconderli al mondo esterno.
Un’autodifesa riuscita contro il secondo più grande esercito della NATO
Mentre la Turchia ha intensificato i suoi attacchi contro il movimento di liberazione curdo utilizzando tutti i mezzi di uno Stato della NATO, i crimini di guerra e i metodi di guerra speciale, non è riuscita a piegare i guerriglieri curdi e a renderli incapaci di agire. Anche il sistema di acquartierare unità speciali, reti di intelligence, forze paramilitari e una fitta rete di basi militari non è riuscito a riprendere il controllo delle aree di difesa di Medya, nel Kurdistan meridionale, controllate dal movimento di liberazione curdo. La zona rimane nelle mani del movimento di liberazione curdo. Diverse operazioni militari propagandate non hanno avuto successo e ora è lo stesso esercito turco a essere accerchiato e a subire pesanti perdite. Grazie alle innovazioni tecniche e tattiche nella guerriglia, il movimento di liberazione curdo è stato in grado di adattarsi all’armamento dell’esercito turco da parte della NATO con droni e nuovi elicotteri. Le forti perdite subite dall’esercito turco nelle operazioni di guerriglia alla fine di dicembre 2023 e all’inizio del 2024 non potevano più essere nascoste nemmeno dallo Stato turco e hanno innescato un dibattito sul significato e lo scopo delle operazioni militari transfrontaliere della Turchia.
Anche le strutture politiche nelle varie parti del Kurdistan sono ancora in grado di definire la propria agenda nonostante la forte repressione e, con l’aiuto della base sociale, resistono ai regolari bombardamenti dell’esercito turco, all’embargo e ad altre forme di guerra.
Il parallelismo tra la situazione di Öcalan e la società curda
In questo contesto, la campagna “Libertà per Öcalan e una soluzione politica alla questione curda”, iniziata il 9 ottobre 2023, è la continuazione della resistenza della società curda alla politica di isolamento e distruzione della Turchia. È un obiettivo strategico della politica curda nel mezzo della Terza Guerra Mondiale in Medio Oriente, perché la situazione di Öcalan è strettamente legata alla soluzione della questione curda e alla situazione della società curda. Egli è il fondatore e la guida del pensiero del movimento politico curdo e un rappresentante di 50 anni di storia politica del Kurdistan. Pertanto, la questione della sua libertà non comprende solo gli aspetti legali e dei diritti umani, ma soprattutto quelli politici. L’isolamento di Imrali è il punto di partenza della politica dello Stato turco nei confronti della società curda. Anche lo Stato turco è consapevole di questa realtà e sta adattando arbitrariamente la situazione di Imrali alla situazione politica e agli sviluppi attuali. Questi parallelismi tra la situazione di Öcalan a Imrali e la situazione della società curda esistono fin dall’inizio dei suoi 25 anni di detenzione. L’inasprimento dell’isolamento di Imrali è stato ed è sinonimo di un’intensificazione della guerra in Kurdistan. Anche le fasi di dialogo e di negoziazione con Öcalan hanno un impatto positivo sulla vita della società curda. Pertanto, il grado di riduzione dell’isolamento di Imrali darà più respiro alle società del Kurdistan e potrà avvicinare una soluzione politica alla questione curda.
Inoltre, la libertà dell’architetto che ha dato vita al più forte movimento popolare radicale democratico, multietnico e politicamente aperto per il Medio Oriente e che ha fondato la filosofia politica del Confederalismo democratico sarà un passo significativo verso una Confederazione democratica del Medio Oriente.
Referenze:
(1) Abdullah Öcalan, Manifesto of Democratic Civilization (Fourth Volume), Democratic Civilization: Ways Out of the Civilization Crisis in the Middle East
(2) ibid.
(3) Illegal kidnapping of Abdullah Öcalan in Kenya on February 15, 1999 and his imprisonment on the Turkish prison island of Imrali, which continues to this day.
(4) https://en.majalla.com/node/303536/politics/all-you-need-know-about-india-middle-east-europe-economic-corridor
(5) Abdullah Öcalan, Manifesto of Democratic Civilization (Fourth Volume), Democratic Civilization: Ways Out of the Civilization Crisis in the Middle East
(6) Abdullah Öcalan, Manifesto of Democratic Civilization (Fourth Volume), Democratic Civilization: Ways Out of the Civilization Crisis in the Middle East
(7) https://nordundostsyrien.de/wp-content/uploads/2024/01/The-Social-Contract-of-the-Democratic-Autonomous-Administration-of-the-North-and0AEast-Syria-Region.pdf
(8) Abdullah Öcalan, Manifesto of Democratic Civilization (Fourth Volume), Democratic Civilization: Ways Out of the Civilization Crisis in the Middle East