La lotta di liberazione kurda e l’antimperialismo nel XXI secolo

Negli ultimi tempi molte persone e movimenti si sono sforzati di dare un senso all’alleanza tattica degli Stati Uniti con il popolo curdo nella lotta contro l’ISIS. Molti si sono chiesti: “Come può un movimento rivoluzionario prestarsi oggi alla cooptazione da parte dell’imperialismo?”. Tuttavia, buona parte di queste analisi deriva da approcci dogmatici, poco attenti alle persone e alle dinamiche in campo e con una scarsa conoscenza della cultura e della società mediorientale. In nome di teorie ormai superate, costoro rifiutano la solidarietà con le forze rivoluzionarie nelle regioni devastate dalla guerra, dimostrando così la loro mancanza di fiducia nella possibilità di vittoria del socialismo. Un altro fenomeno problematico nella sinistra globale è la tendenza a considerare “antimperialisti” Stati autoritari reazionari come l’Iran, la Turchia o la Siria, a causa delle loro temporanee controversie con gli Stati Uniti. Cosa significa essere antimperialisti oggi? È sufficiente concentrarsi sull’opposizione a un solo centro dell’Impero? Come possiamo evitare di ripetere gli errori del socialismo di Stato nel costruire soluzioni concrete ai bisogni delle persone? Possiamo immaginare un paradigma globale e di liberazione per la democrazia?

Questa di seguito è una versione leggermente modificata di un’intervista in due parti realizzata nel 2017 dal giornalista Berfîn Bağdu dell’Agenzia Firat News con il membro del Consiglio esecutivo dell’Unione delle Comunità del Kurdistan (KCK) Rıza Altun sull’imperialismo e il capitalismo e sulle loro declinazioni nella crisi mediorientale. L’intervista dettagliata spiega anche l’approccio del PKK al socialismo reale e al socialismo, e il cambiamento di paradigma del movimento.

I movimenti rivoluzionari e le persone di tutto il mondo, soprattutto in Europa e in America Latina, guardano al PKK e al Rojava con crescente interesse. Tuttavia, la maggior parte di loro non riesce a dare un senso ai rapporti tra la coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti e l’identità socialista e antimperialista del movimento curdo dopo Kobanê. Non si tratta di una contraddizione dal vostro punto di vista? Oppure questa rappresenta una situazione temporanea che si è creata a causa dell’assedio e dell’isolamento politico, ideologico e sociologico dei curdi? Qual è la tua spiegazione in merito?

Per comprendere l’attuale situazione politica, è necessario sapere come si è venuta a creare. I recenti sviluppi non sono il risultato di relazioni politiche basate su rapporti strategici e tattici pianificati. Piuttosto, devono essere valutati e visti in termini di risultati politici e tattici legati a particolari situazioni politiche, nonché alla lotta e alla resistenza attiva del popolo.

Quando è emersa l’ultima crisi in Medio Oriente, il PKK aveva già una storia di lotta di 40 anni. Questa lotta era essenzialmente contro il sistema imperialista-capitalista rappresentato dagli Stati colonialisti che controllano le quattro parti del Kurdistan per conto del sistema capitalista e imperialista. Per quarant’anni esatti, questi Stati hanno sostenuto le potenze colonialiste imperialiste e capitaliste e hanno fatto di tutto per reprimere il movimento di liberazione.

Il complotto internazionale contro il nostro leader (Abdullah Öcalan) è il risultato degli sforzi di queste potenze, un approccio sistematico per eliminare il nostro movimento. All’inizio della crisi mediorientale, la loro strategia era quella di escludere il nostro movimento per poterlo soffocare e infine distruggere. Questo approccio si fondava sulla collaborazione e sull’alleanza tra le potenze imperialiste e colonialiste. Possiamo rendercene conto se pensiamo a ciò che è accaduto in Siria. Quando è scoppiato il caos in Siria, nel nome dell’opposizione siriana molti gruppi hanno stretto rapporti con l’imperialismo internazionale e con le potenze colonialiste regionali. Gli ambienti vicini al movimento curdo di liberazione sono stati gli unici a organizzare una resistenza difensiva senza legami con alcuno Stato. Non c’è stato alcun sostegno da parte di nessuna potenza.

Quando alcune potenze che hanno aggravato la crisi siriana, come la Turchia e l’Arabia Saudita, hanno preso di mira i curdi per procura, il nostro popolo ha opposto resistenza ispirandosi alle idee del nostro leader Apo, Abdullah Öcalan. Il regime siriano e la cosiddetta opposizione siriana hanno fatto di tutto per reprimere questa resistenza. I curdi hanno reagito quando organizzazioni come ISIS, Al-Nusra, Ahrar Al-Sham, ecc. hanno attaccato le regioni a maggioranza curda con il sostegno del regime di Assad. È così che tutto è iniziato.

All’inizio di questa battaglia e della resistenza, la Turchia, l’Iran, la Siria e altre potenze affini sostenevano i gruppi terroristici salafiti ed estremisti che attaccavano i curdi in Siria. Anche altre potenze sostenevano questi gruppi, in particolare gli Stati Uniti e Israele. Queste sviluppavano progetti e costringevano tali gruppi ad agire in accordo con i propri interessi. I gruppi salafiti attaccarono i curdi con il sostegno di questi Stati e ciò si protrasse fino alla resistenza di Kobanê. Kobanê è stato un punto di svolta. Prima della resistenza di Kobanê non c’era una sola potenza regionale o internazionale che sostenesse il movimento di liberazione curdo in Siria. Non c’era nessuna potenza che avesse anche solo un rapporto tattico con i curdi. Queste potenze hanno fatto complessivamente tutto il possibile per eliminare il movimento curdo. L’Iran ha agito insieme al regime siriano per schiacciare la resistenza curda. Dall’altro lato, gli Stati Uniti e Israele hanno cercato di sopprimere la resistenza sostenendo con varie politiche i gruppi salafiti attraverso la Turchia e l’Arabia Saudita. Kobanê è stato il punto di svolta in questa lotta.

Le potenze che volevano dominare il Medio Oriente attraverso l’ISIS hanno perseguito una politica piuttosto mirata e costante. Hanno seguito la stessa strategia di Gengis Khan o Tamerlano (Timur), che ha consentito loro di conquistare l’intero Medio Oriente in un breve periodo di tempo: violenza e ferocia senza limiti. Quando l’ISIS decapitava persone davanti alle telecamere e divulgava le proprie atrocità, non lo faceva certo spinto da una barbarie primitiva. Piuttosto, queste azioni erano il risultato della loro strategia per creare un clima di panico e terrore, per far sì che il popolo si arrendesse. Dopo i primi massacri, la paura diffusa dall’ISIS precedeva l’ISIS stesso, così che città e paesi venivano consegnati loro senza alcuna resistenza. La prima resistenza contro l’ISIS ha avuto luogo a Şengal (Sinjar). I guerriglieri del PKK e i combattenti delle YPG-YPJ in Rojava hanno opposto la prima e unica resistenza all’ISIS quando le sue bande hanno attaccato gli Ezidi. Pur disponendo di enormi forze militari, gli Stati Uniti, la Russia e i Paesi dell’UE sono rimasti a guardare lo svolgersi del massacro; i guerriglieri delle HPG e YJA Star del PKK insieme ai combattenti delle YPG-YPJ hanno salvato dal genocidio centinaia di migliaia di Ezidi, cristiani e musulmani.

La resistenza di Şengal ha ridato coraggio al mondo e ha fatto sì che le persone guardassero alla situazione superando il clima di panico e terrore. Si sono chiesti: ” Perché, nonostante la loro enorme potenza militare, gli Stati Uniti, l’Unione Europea e le altre potenze globali e regionali non rispondono a questa atrocità? Cercano forse di trarre vantaggio da questa barbarie?”. La nuova situazione ha messo in discussione la legittimità delle potenze internazionali e degli Stati regionali, generando al contempo prestigio per il PKK e per il nostro leader Öcalan. Ha smontato il marchio di “organizzazione terroristica” che il colonialismo e l’imperialismo turco avevano appiccicato sul nome del nostro movimento. Dopo di ciò, nessuno ha potuto continuare a intrattenere rapporti con l’ISIS o con organizzazioni simili. Soprattutto i Paesi che si definiscono “Stati democratici” hanno dovuto cercare nuove strategie per poter mantenere la loro presenza nella regione.

Eppure, nonostante la resistenza in Şengal e i suoi risultati, le potenze regionali come la Turchia hanno continuato la loro politica nei confronti dell’ISIS e di altre organizzazioni salafite. Più tardi hanno indirizzato l’ISIS a Kobanê e hanno cercato di garantirne la caduta nelle sue mani. L’obiettivo era distruggere le conquiste dei curdi del Rojava, e soprattutto le conquiste del movimento per la libertà in Medio Oriente. Ciò era nell’interesse di tutti in quel momento. Il regime e i suoi sostenitori internazionali indiretti cercavano di trarne vantaggio, oltre alla Turchia e all’Arabia Saudita. L’ISIS ha stretto legami tattici e strategici grazie alle posizioni anti-curde di queste potenze. È così che è maturato il progetto di attacco a Kobanê.

Malgrado tutto, la resistenza opposta all’attacco a Kobanê è stata grande e sostenuta dalla popolazione di tutte e quattro le parti del Kurdistan. Tutti i curdi del Kurdistan settentrionale, meridionale e orientale hanno mostrato una profonda disponibilità nei confronti di Kobanê. La durata della resistenza ha accresciuto l’attenzione della popolazione della regione e dell’opinione pubblica internazionale. Dopo 100 giorni di resistenza Kobanê era in cima alle agende di tutto il mondo. Una volta che Kobanê fu all’ordine del giorno dell’opinione pubblica internazionale, la sconfitta dell’ISIS portò a una spaccatura. A quel punto, le potenze regionali e globali rivalutarono le loro posizioni politiche e militari e intrapresero un nuovo percorso per parte loro. La resistenza curda a Kobanê, in Rojava, creò nuove condizioni. La comunità internazionale e l’opinione pubblica fecero pressione sugli Stati Uniti e sulle altre potenze internazionali affinché intervenissero nella vicenda. La resistenza a Şengal, e poi a Kobanê, ha smosso le coscienze della comunità internazionale.

Il rapporto tra la coalizione guidata dagli Stati Uniti e le YPG è stato giudicato legittimo e necessario al pari dell’alleanza tra Stati Uniti e Unione Sovietica contro il fascismo di Hitler durante la Seconda guerra mondiale. Entrambe le parti avevano bisogno di questo tipo di relazione, proprio come gli Stati Uniti e i sovietici all’epoca. In questo modo, è stata sviluppata una relazione tattica con gli Stati Uniti contro l’ISIS.

È più importante vedere come si è sviluppata questa relazione e quali sono le intenzioni delle parti in causa, piuttosto che giungere a una conclusione limitandosi a considerare le posizioni ideologiche delle parti. Del resto, per quarant’anni gli Stati Uniti hanno combattuto contro il PKK e il PKK ha combattuto contro il sistema imperialista all’interno del sistema coloniale. Tuttavia, la situazione e il caos in Medio Oriente sono inediti e investono il sistema a livello mondiale. In questa situazione caotica non sono in gioco solo le lotte dei popoli oppressi e dei movimenti socialisti contro le potenze imperialiste. È in atto anche una lotta tra le stesse potenze imperialiste, e tra queste e le potenze regionali e le tendenze reazionarie locali. Questa lotta crea condizioni che permettono a tutte le parti di stabilire relazioni tattiche e di avanzare per raggiungere i propri obiettivi. Pertanto, ogni parte cerca di ottenere risultati in tal senso, avvalendosi del potere e delle capacità delle altre. Diverse posizioni politiche e militari rendono questo possibile.

All’inizio della crisi in Medio Oriente, gli Stati Uniti si sono trovati di fronte a diverse opzioni dopo che gli investimenti politici e militari effettuati in Siria attraverso la Turchia e l’Arabia Saudita non avevano sortito alcun effetto. La prima possibilità era quella di abbandonare la Siria, cioè di ritirarsi dalla regione. In questo modo, gli Stati Uniti avrebbero fatto marcia indietro rispetto alla loro politica di dominio mondiale. Gli Stati Uniti non sono assolutamente disposti a fare niente del genere. La seconda opzione sarebbe stata aumentare gli sforzi nelle politiche condotte nei confronti della Turchia e dell’Arabia Saudita, che però stavano fallendo. Nemmeno ciò avrebbe portato a un risultato diverso. La terza opzione era quella di spingersi oltre, sviluppando una relazione con una nuova forza che avesse dimostrato il proprio successo sul campo. Questa terza opzione è stata la scelta che gli Stati Uniti sono stati costretti a fare.

Invece di continuare a collaborare con la Turchia e l’Arabia Saudita e persistere nella strategia precedente, opponendosi a questa forza di liberazione che aveva riportato ottimi risultati, gli Stati Uniti hanno scelto di collaborare con il successo di questa resistenza, a tutto vantaggio di se stessi. Si trattava di un approccio imperialista astuto che cercava di attribuire a se stesso qualsiasi conquista. Gli Stati Uniti hanno calcolato molto bene questo aspetto quando hanno sviluppato questa relazione tattica.

Gli Stati Uniti hanno dato il via a un nuovo processo basato sul sostegno alla resistenza delle YPG come strategia generale per la coalizione internazionale contro l’ISIS. Naturalmente, la lotta di liberazione dei curdi del Rojava si basa sulla libertà e sull’uguaglianza su una base socialista. È l’espressione di un percorso politico fondato sulla fratellanza e sull’unità dei popoli. Gli imperialisti, invece, lottano per imporre la loro egemonia sul Medio Oriente. Queste posizioni strategiche e ideologiche divergenti sono confluite in un rapporto meramente tattico a Kobanê. Gli sviluppi successivi vanno considerati come la prosecuzione di questo rapporto tattico.

Di per sé, questo è un legame molto doloroso. Da una parte il movimento di liberazione cerca di estendere il proprio territorio e conduce una lotta per creare un Medio Oriente libero sviluppando soluzioni democratiche, mentre l’altra parte cerca di rafforzare la propria egemonia in Medio Oriente. Non si tratta di un rapporto in cui le parti si sostengono a vicenda, bensì di un conflitto costante.

Possiamo dire che si tratta di una situazione estremamente insolita, forse la prima nel suo genere? Può esistere una partnership tattica che nasce dall’incrocio degli interessi delle forze dei popoli oppressi e delle potenze imperialistiche egemoni?

Può darsi che in Medio Oriente sia il primo di questo tipo, ma non è una cosa inedita nella storia. Se guardiamo alla Storia delle lotte di liberazione, possiamo trovare numerosi esempi. Alcuni di questi riguardano la storia recente, in particolare la Prima e la Seconda guerra mondiale e il periodo della Rivoluzione sovietica.

I sovietici e gli Stati Uniti hanno trovato dei punti in comune nella loro lotta contro il fascismo durante la Seconda guerra mondiale. Ora, se valutiamo questo aspetto, come dobbiamo definire la posizione dell’Unione Sovietica? Dovremmo forse sostenere che l’Unione sovietica collaborò con l’imperialismo dopo aver considerato le sue relazioni con gli Stati Uniti o con il Regno Unito? Sarebbe un approccio molto superficiale e dogmatico.

Esistono diversi esempi anche a partire dalla Rivoluzione di ottobre. Dopo la Rivoluzione di ottobre, sono stati stipulati accordi economici e politici con i capitalisti e gli imperialisti. Se si guarda alla natura di questi accordi, non sembra esserci stata alcuna rinuncia al socialismo da parte sovietica. Non vi fu rinnegamento del socialismo quando Lenin sviluppò relazioni con gli imperialisti. La stessa cosa vale per gli accordi presi durante la Seconda guerra mondiale. In questo caso, bisogna considerare la necessità di sviluppare relazioni e accordi tattici e strategici per la Rivoluzione di ottobre. Anche la lotta contro il fascismo durante la Seconda guerra mondiale richiese la creazione di un fronte comune antifascista.

Quanto dureranno queste relazioni?

A ben vedere, questo tipo di relazioni è limitato al periodo in cui esiste un determinato problema. Ciò significa che esse non arrivano a costituire relazioni strategiche. Proprio come gli accordi della Rivoluzione di ottobre nacquero da situazioni congiunturali e divennero inutili una volta terminata la situazione congiunturale, lo stesso accadde durante la Seconda guerra mondiale.

L’alleanza che si sviluppò durante la Seconda guerra mondiale consisteva in una presa di posizione antifascista, scaturita dal desiderio dell’Unione sovietica di difendere il proprio territorio sotto un intenso attacco, unito agli interessi di altre potenze antinaziste. Questo accordo rimase in vigore finché gli attacchi fascisti continuarono. Una volta sconfitto il fascismo, però, tutte le parti tornarono sulle proprie posizioni politiche e proseguirono secondo il proprio percorso ideologico-politico.

Non ci sono molti esempi di questo tipo in Medio Oriente. Questa è la prima del suo genere nonché una situazione unica. Il conflitto e la lotta in corso nel mondo possono essere considerati come la Terza guerra mondiale. Il Medio Oriente è uno dei territori più colpiti dal conflitto globale. Questo significa che potremmo assistere a sviluppi finora impensabili nella regione. Ad esempio, potremmo assistere a complicate relazioni tattiche e strategiche tra gli attuali Stati regionali, l’imperialismo internazionale e i movimenti rivoluzionari socialisti, che agiscono tutti per rafforzare le proprie posizioni. Questo perché la realtà sul campo è molto complicata. Vi sono tre percorsi principali.

Il primo è il campo dell’imperialismo e coinvolge le grandi potenze. Questo è rappresentato dagli Stati Uniti, dalla Russia e dagli Stati dell’Unione Europea. Il secondo percorso è definito dagli Stati regionali. Questi sono rappresentati da Paesi come la Turchia, l’Iran e l’Arabia Saudita. Il terzo percorso è quello del socialismo, della democrazia e della libertà. Questo è rappresentato dai movimenti popolari di sinistra e socialisti, come il PKK. Questi tre percorsi sono in conflitto reciproco e tra di loro, soprattutto i primi due. Pertanto, queste forze possono sempre sviluppare relazioni e alleanze differenti in base alla priorità dei loro interessi e conflitti. Ogni potenza si apre a relazioni e alleanze pur essendo in conflitto con le altre. La nostra definizione di “Terza guerra mondiale” si basa su questa realtà. Se consideriamo questa definizione di Terza guerra mondiale, potremo constatare diverse nuove relazioni strategiche e tattiche. In questo caso, si suppone che molte potenze sviluppino relazioni tattiche per progredire verso i loro obiettivi strategici, anche se ciò può sembrare contraddittorio. Questo vale per tutti. È nella natura stessa della politica e della diplomazia. È normale che sia così. Pertanto, esprimere giudizi sulla base della situazione politica e militare attuale potrebbe essere un approccio troppo superficiale e limitato.

Adottare il giusto approccio significa invece questo: il capitalismo è in una crisi profonda e strutturale. È una crisi globale, che si avverte intensamente in Medio Oriente. Il conflitto in Medio Oriente si consuma sia a livello militare che politico. Pertanto, un approccio ideologico e politico da solo non è sufficiente. È necessario avere una posizione organizzata e militare allo stesso tempo. Quando si assume una posizione organizzata e militare, si lotta costantemente contro lo status quo per cambiarlo, trasformarlo e sviluppare un nuovo assetto. Questo è un processo pratico. Se non viene valutato correttamente e la dialettica del progresso non viene attuata in modo corretto, gli approcci dogmatici possono portare alla propria scomparsa. Allora potrebbe crearsi una situazione in cui la linea della libertà non riesce ad affermarsi.

Per questo motivo, dobbiamo conoscere e analizzare bene il campo. Dobbiamo essere accurati quando decidiamo quando e cosa fare contro qualcosa. Quando avanziamo o occupiamo una posizione, dobbiamo valutare con attenzione come sarà difesa e come sarà utilizzata per costruire e realizzare il socialismo. Se non guardiamo le cose da questa prospettiva, non saremo mai in grado di comprendere il percorso della libertà o le posizioni degli Stati regionali e dell’imperialismo internazionale. Se confondiamo tutti questi aspetti e ci manteniamo in disparte con i nostri approcci teorici, atteggiandoci a grandi difensori della libertà, restando però privi del potere di incidere, in realtà compromettiamo gravemente la lotta e la resistenza del popolo.

Si tratta di relazioni tattiche, questo è chiaro. Ora la Federazione della Siria del Nord e le forze del Rojava hanno rapporti con gli Stati Uniti e la Russia. Due grandi potenze imperialiste. Come si può proteggere l’identità socialista quando si intrattengono relazioni politiche, militari ed economiche con queste potenze?

Per prima cosa, devo dire che la nostra lotta è portata avanti considerando attentamente le relazioni politiche, militari ed economiche con queste potenze: La nostra lotta viene condotta tenendo in attenta considerazione le esperienze storiche di altre lotte per la libertà. Bisogna tenerne conto. In secondo luogo, non è possibile comprendere la nostra situazione dal punto di vista del socialismo reale. Dalla prassi del socialismo reale, sappiamo che non è possibile condurre una lotta per la libertà attraverso una polarizzazione del mondo per fronti e definendosi in uno di questi. Il mondo non si trova in quella situazione e non è possibile combattere per la libertà se ci si isola e ci si emargina all’interno del sistema capitalistico mondiale. Dobbiamo considerare il problema nel suo complesso e agire di conseguenza.

Oggi viviamo in un sistema mondiale capitalista. Noi vogliamo creare uno spazio di libertà per lottare contro il capitalismo, l’imperialismo e il colonialismo. In questo momento non esiste la possibilità di posizionarsi in un’area di libertà già costituita. Vogliamo crearne una dentro questo mondo, che è prigioniero e schiavo. Le aree di libertà che vogliamo creare sono ora sotto il controllo di altre potenze. Ma i gruppi sociali e politici nutrono profonde contraddizioni tra di loro. Possiamo avanzare in nome di un ideale socialista solo approfittando di questi conflitti e di queste contraddizioni. La creazione di polarizzazioni e prendere posizione al loro interno non giova alle forze socialiste.

Se affrontiamo i problemi secondo la concezione della polarizzazione tipica del socialismo reale, allora dovremmo scontrarci con tutte le potenze imperialiste e colonialiste. Ma nella realtà, le potenze imperialiste e colonialiste non sono omogenee. Esistono diverse contraddizioni e divergenze tra di loro. Se non riusciamo a trarre vantaggio da questi conflitti e a radunare forze e posizioni in nome dell’idea socialista, la sconfitta dell’ideologia socialista sarà profonda.

Se dovessimo considerare la questione distinguendo soltanto tra socialisti e capitalisti-imperialisti, ci resterebbero ben pochi che potremmo definire amici sul terreno. E con questo insieme di “amici” sarebbe molto difficile progredire in questa grande lotta. Quando si presenta l’occasione, tutto ciò che sottraiamo al sistema capitalista-imperialista renderà più forte il movimento socialista e più debole il sistema capitalista-imperialista.

A questo punto, dobbiamo avanzare secondo le necessità dettate dai nostri approcci ideologici e politici, organizzando e aprendo zone di libertà. Di fronte a noi stanno i poteri egemonici, che sono in relazione con il sistema capitalista, e che controllano queste zone. Quindi noi dobbiamo aprire uno spazio per noi stessi in queste zone.

Se guardiamo alla realtà del Medio Oriente, non esiste alcuna zona di libertà né alcun gruppo libero. Tutte le zone sono state perdute nel corso della storia. La società è stata annessa al sistema mondiale capitalista presente. Paesi e regioni sono invasi da potenze egemoniche colonialiste e imperialiste. La strada per la libertà della società è sbarrata in nome della sovranità statale.

I curdi stanno conducendo una lotta per la libertà in queste circostanze. Stiamo cercando di creare una zona di libertà nel contesto della realtà sociale negata dall’imperialismo e dai quattro Paesi colonialisti (Iran, Iraq, Turchia e Siria). Dobbiamo procedere attraverso tappe e approcci calcolati con estrema attenzione. Mettere tutti i poteri contro di noi affermando “questo è imperialista”, “questo è colonialista e capitalista” significherebbe accettare la sconfitta. Vorrebbe dire rischiare di cancellare la lotta per la libertà.

Quindi, che fare? Dobbiamo capire come costruirci partendo da zero, analizzando la realtà militare, politica e sociale di queste regioni. Quando si procede in questo modo, il confronto con le varie potenze, lo sviluppo di relazioni tattiche e l’avvio di relazioni militari e politiche sono inevitabili. L’importante è attenersi all’approccio ideologico, alla linea politica e alla libertà. Bisogna essere certi che tutti questi fattori siano utili ai propri obiettivi. Coloro che portano avanti la lotta per la libertà devono comprendere questa realtà e saper agire in questo contesto.

Oggi stiamo conducendo una lotta per la libertà. Se si guarda alla storia della nostra lotta, si vedrà che le difficoltà e le esperienze non sono mancate. Per più di 40 anni, il sistema capitalista e imperialista mondiale si è coalizzato contro la nostra lotta per la libertà. Hanno sostenuto le potenze colonialiste e hanno fatto grandi investimenti per impedire la nascita di un movimento per la libertà. Nonostante ciò, una grande lotta è stata sviluppata con il solo sostegno del popolo. La lotta è stata accolta dal popolo. Questo approccio alla libertà, che è stato adottato dalla società curda, ha avuto un’enorme influenza sul Medio Oriente e la lotta ha trovato un posto all’interno dell’attuale congiuntura. Nonostante avesse il mondo contro, il movimento basato sulla guerriglia, sulla politica democratica e sull’organizzazione del popolo ha portato a risultati incredibili.

Questo movimento, infatti, ha dimostrato di poter andare avanti anche senza il sostegno attivo di quelle organizzazioni che si definivano “a difesa della libertà” o “anti-sistema”. La maggior parte delle frazioni della sinistra nutriva perplessità sul nostro movimento e quindi non lo sosteneva affatto.

Oggi in Medio Oriente regna il caos. Il caos è anche in parte il risultato della lotta quarantennale del nostro movimento. Questo caos ha stravolto il Medio Oriente. È emerso un nuovo Medio Oriente in cui le politiche delle potenze internazionali e imperialiste hanno fallito. Coloro i quali avevano creduto che il capitalismo o l’imperialismo fossero molto potenti ora hanno perso la loro forza. Il caos in Medio Oriente li ha inghiottiti tutti e oggi sono diventati invisibili. Allo stesso modo, la struttura delle potenze regionali e l’egemonia degli Stati a difesa dello status quo sono crollate.

Come è potuto accadere tutto questo? Lo si potrebbe spiegare alla luce della crisi del sistema o forse dei conflitti storici. Ma questo non sarebbe sufficiente. La crisi del sistema o i conflitti storici devono essere innescati da una lotta e da un intervento prima di sfociare nel caos. La quarantennale lotta di liberazione del PKK ha avuto un ruolo nell’aumento del caos in Medio Oriente e nel collasso del sistema.

Ora tutti stanno lottando per ricostruirsi e riposizionarsi in Medio Oriente. Si tratta di un aspetto molto importante. Dobbiamo rendercene conto. Il centro della crisi della modernità capitalista è proprio in Medio Oriente. O il capitalismo riuscirà a ricostituirsi in Medio Oriente e a prolungare la sua vita per altri cento o più anni, oppure il caos in Medio Oriente aprirà una crepa all’interno del sistema della modernità capitalista, proprio in quella regione dove un tempo sorse la libertà. È per questa ragione che tutte le potenze mondiali si trovano oggi in Medio Oriente e si combattono tra loro. Spiegare tutto questo solo in termini di “guerra per il petrolio” significa adottare un approccio assai superficiale.

La nostra regione è dove l’attuale depressione del sistema capitalistico mondiale si è trasformata nella Terza guerra mondiale. Sono tutti presenti in questo territorio. Qui la lotta si svolge sul piano ideologico, politico e di sistema. L’imperialismo globale vuole realizzare un’egemonia e un sistema mondiale post-moderno proprio mediante questa lotta. Gli Stati regionali legati allo status quo stanno cercando di proteggere le proprie conquiste e i privilegi che sono stati loro garantiti dal sistema del XX secolo. I popoli e le società oppresse stanno invece cercando di far nascere da questo caos le proprie libertà e uguaglianza. Questo è ciò che sta avvenendo in Rojava in questo momento.

Ma su quali basi si costruiscono queste relazioni? È possibile realizzare una società socialista nel nord della Siria o in Medio Oriente malgrado l’imperialismo americano, russo ed europeo?

Se guardiamo ai precedenti sviluppi della crisi in Medio Oriente, non troviamo da nessuna parte alcuna linea di liberazione. Non ve ne sono in Tunisia, in Libia, in Egitto o negli Stati del Golfo. Questo perché il caos stava progredendo soprattutto come riassetto della modernità capitalista e dei conflitti delle potenze imperialiste e colonialiste. Non sussisteva alcun ordinamento o organizzazione politica che rappresentasse la libertà. La ricerca di libertà del popolo e i suoi sforzi sono stati stroncati da quei poteri proprio perché non erano organizzati. Ma quando la crisi è arrivata in Rojava, si è affermata una nuova situazione improntata al cammino verso la libertà. La nuova situazione è esattamente quella emersa dalla lotta del PYD e delle YPG/YPJ. Per la prima volta, in Medio Oriente è emersa una linea politica democratica, libertaria e socialista contro la modernità capitalista. Per questo motivo, tutti si sono uniti per schiacciare questa lotta che è stata abbracciata dal Medio Oriente e dal mondo. Tuttavia, alla fine hanno instaurato rapporti con ciò che non potevano eliminare.

Come comportarsi in questa situazione? Sicuramente coloro che combattono una lotta per la libertà dovrebbero innanzitutto credere in se stessi. Se desiderano e credono nella loro ideologia, nel socialismo, nella libertà e nell’uguaglianza sociale, allora non dovrebbero esitare a sviluppare relazioni con chiunque.

La tua domanda rispecchia il destino del Medio Oriente. Se alcuni combattono una lotta per la libertà e altri cercano di far prevalere i propri interessi, allora queste parti inevitabilmente attraverseranno un percorso di relazioni e contraddizioni, di trattative e di lotte. Deve essere così, non potrebbe essere altrimenti. Il processo può assumere la forma dell’accordo e dell’alleanza o del conflitto. Ad esempio, gli Stati Uniti hanno dovuto sviluppare un rapporto tattico con le YPG, una forza verso la quale inizialmente non avevano mostrato alcun interesse. Per contro, gli Stati Uniti stanno cercando in tutti i modi di rimuovere l’identità socialista delle YPG e di integrarle nel sistema capitalista-imperialista. Questo è uno dei loro obiettivi primari quando sviluppano una relazione. Ma anche i curdi e la linea politica della libertà perseguono i propri obiettivi in questa relazione. È dunque importante stabilire chi stia avanzando con il cavallo di chi.

Intendo dire che i risultati ottenuti in questo rapporto sono di importanza strategica e tattica per entrambe le parti. Le posizioni raggiunte dai curdi del Rojava e dalle forze della Federazione della Siria del Nord sono vantaggi strategici per tutte le forze socialiste e anti-sistema. Ma la presenza degli Stati Uniti in Siria ha solo una valenza quantitativa per quanto riguarda il sistema imperialista. Senza dubbio, questi rapporti tattici sono importanti per loro. E sappiamo per certo che queste relazioni si svilupperanno in modo costantemente conflittuale. Ma il movimento in Rojava ha fiducia in se stesso e sta ottenendo ottimi risultati.

Ora c’è una coalizione in Siria, sotto il controllo degli Stati Uniti. Essa ha tutto il sostegno del capitalismo. Ma c’è anche un altro schieramento legato a questo sistema: la Russia. E la Russia ha un notevole appoggio alle spalle. Con la presenza di Russia e Stati Uniti, tutte le potenze egemoniche e imperialiste del mondo sono rappresentate in Medio Oriente. Gli Stati regionali si trovano in una posizione di dipendenza e contraddizione tra questi due soggetti. Mentre queste potenze cercano di imporre il dominio del sistema mondiale imperialista, sono in conflitto tra loro in quanto cercano di imporre la propria egemonia come supremazia assoluta.

In queste circostanze, ora c’è uno spazio di libertà in un piccolo pezzo di terra, chiamato Rojava, dove si è costituita una zona comunale democratica. Stiamo parlando per la prima volta di un’area di libertà. Con pieno sostegno materiale e morale della società, questa forza persiste nella sua lotta. Nel frattempo essa mira ad affermarsi resistendo con mezzi ideologici, politici ed economici contro tutte le forze del sistema capitalistico mondiale.

Occorre riflettere su cosa significhi questo spazio di libertà per coloro che lo difendono. È in atto un tentativo imperialista e capitalista di distruggere completamente questo spazio. Ciò implica delle difficoltà. Dall’altro lato, si lotta per estendere quest’area. Dobbiamo valutare attentamente questo conflitto e questa contraddizione. Non possiamo comprendere questa incongruenza senza comprendere il conflitto.

Inoltre, le forze sul campo devono saper sfruttare le relazioni con la Russia e gli Stati Uniti. Soltanto osservando il modo in cui vengono gestite queste relazioni, è possibile cogliere il fenomeno.

Hai parlato dell’approccio strategico delle potenze internazionali. Qual è l’approccio della Russia?

Considerando l’approccio strategico della Russia, si nota che essa vuole penetrare in Siria con un ruolo di potenza regionale. Chi sostiene la Russia? Iran, Turchia, Iraq e Siria. La Russia vuole rafforzarsi esercitando un’influenza sugli altri Stati del Medio Oriente. Qual è il suo obiettivo strategico di base? Vuole conferire un assetto da Stato-nazione al regime siriano e trasformarlo in una potenza egemonica. Non troviamo alcun tipo di approccio che possa evocare la democrazia, l’uguaglianza o la libertà, né tantomeno un atteggiamento che possa aiutare a risolvere i problemi con mezzi democratici.

Naturalmente, mentre rivela questo tipo di impostazione, la Russia elabora una concezione basata sulla valutazione delle quotidiane divergenze con i suoi alleati. Essa persegue una politica di integrazione delle zone liberate guidate dai curdi nel sistema del regime, nello Stato nazione. A tal fine utilizza il suo potere militare, politico e diplomatico. Ma dall’altra parte, coloro che portano avanti la lotta per la libertà considerano la reale portata di questo potere e cercano di procedere lungo le sue pieghe. Ne consegue che questa relazione è molto complicata. La Russia è in relazione con Turchia, Iran e Siria e vuole inglobare il movimento per la libertà all’interno del regime. Malgrado ciò, il nostro movimento per la libertà cerca di progredire dal punto di vista militare, economico, politico e diplomatico, sfruttando le crepe nelle relazioni tra le parti.

Abbiamo parlato della Russia… Qual è invece l’approccio strategico degli Stati Uniti?

Una situazione simile vale anche per gli Stati Uniti. Gli Stati Uniti sono a loro agio con la linea politica di libertà del PYD? Non credo che gli Stati Uniti siano a loro agio con la costituzione dei cantoni, con l’istituzione di un sistema di autogoverno al posto di uno Stato o con gli sforzi per la creazione di una società libera e ugualitaria. Gli Stati Uniti considerano questi aspetti come circostanze congiunturali e li ignorano. Essi vogliono ottenere vittorie militari attraverso relazioni tattiche. D’altro canto, però, sviluppano relazioni strategiche e ponderate con gli Stati regionali. Quindi, prendere posizione contro gli Stati Uniti senza tenere conto del carattere antimperialista delle relazioni tattiche significa fare il gioco del sistema di potere egemonico.

Non esiste un rapporto con gli Stati Uniti che non sia un rapporto tattico, politico e militare. Il modello economico dominante fondato sul monopolio è assente in Rojava. Non c’è posto per i monopoli. Il Rojava aspira a un sistema democratico ed egualitario. Lo si può facilmente evincere dalla costituzione federale. Si sta cercando di organizzare una società democratica e una politica democratica.

In termini economici, l’obiettivo principale è la creazione di una società comunale. Pertanto, si sta preparando una legislazione contro lo sfruttamento e il monopolio. A questo livello, non esiste un’alleanza tattica e strategica con la Russia, gli Stati Uniti o qualsiasi altra potenza capitalista e imperialista. Al contrario, gli si impone una visione del mondo molto diversa. Si cerca di mostrare loro che un altro mondo è possibile. Ma il sistema capitalista lo rifiuta e cerca di integrarlo nello Stato-nazione per distruggere tale alternativa sul nascere.

La Russia e gli Stati Uniti hanno una grande potenza militare e politica. Hanno un’evidente superiorità rispetto al vostro potere; in questo caso si può parlare di una situazione di potere asimmetrico. Quali vantaggi avete nei confronti di questi due fronti? Disponete di qualche vantaggio ideologico, politico e sociale?

Naturalmente, per alcuni aspetti, abbiamo dei vantaggi rispetto a loro. Gli sviluppi in vari ambiti lo dimostrano. Innanzitutto, il Medio Oriente è il luogo in cui è nata la civiltà. Per civiltà intendo il periodo che va dalla nascita della società classista fino all’affermazione del sistema capitalistico. Stiamo parlando di un processo in cui i valori umanitari sono stati distrutti e corrotti. La società è ansiosa e priva di speranza a causa di ciò. Anche l’attuale caos ne è il risultato. La società è fortemente alla ricerca della libertà, ed è qui che noi siamo avvantaggiati rispetto a loro. In generale, la nostra ideologia socialista, che può essere una risposta alla ricerca di libertà della società, è il nostro vantaggio contro l’imperialismo e il colonialismo.

In Medio Oriente sussistono enormi problemi dovuti a divisioni etniche, religiose, settarie, di classe e al sessismo. Il sistema di civiltà e il suo ultimo prodotto – il sistema capitalista – è all’origine di questi problemi. Noi presentiamo una soluzione a questi problemi, che è compatibile con la storia e la cultura dei popoli del Medio Oriente. Infatti, mettiamo in relazione il pensiero socialista con le esperienze presenti nella storia e nella vita culturale dei nostri popoli. Questo è ciò che rende le nostre idee attrattive.

Inoltre, come movimento contiamo su una storia di quarant’anni. Una storia votata all’uguaglianza, alla libertà, alla giustizia e alla solidarietà dei popoli. Pertanto, tutte le parti della società hanno fiducia in questo movimento, che in termini di devozione presenta caratteristiche simili ai movimenti profetici. Oggi noi rappresentiamo questa tradizione attraverso il socialismo.

Se si dimostra un corretto approccio ideologico, politico e organizzativo, è sempre possibile diventare una potenza effettiva in Medio Oriente. Lo abbiamo dimostrato nella regione. Molti difensori della libertà lo hanno dimostrato nel corso della storia. L’abbiamo dimostrato in Kurdistan; in tutte e quattro le quattro parti del Kurdistan. In seguito, il Rojava è emerso come situazione particolarmente avanzata. Questo è importante per noi. È evidente che se si adotta il giusto approccio, si ottengono risultati concreti.

In secondo luogo, cosa più importante, i popoli e le società sono direttamente coinvolti nella lotta. Finora, la partecipazione della società ai conflitti e alle lotte era limitata. La società era o la vittima o il lato oppresso dei conflitti tra i poteri dominanti. Ma ora, specialmente nella Federazione della Siria del Nord, tutte le diverse parti della società sono attivamente coinvolte negli sforzi politici, militari e organizzativi. Oggi le potenze imperialiste e colonialiste hanno una capacità molto limitata di aizzare un gruppo sociale contro un altro e di innescare una guerra tra di loro. I nuovi modi in cui la società si esprime in questo contesto hanno portato alla nascita di un nuovo baricentro e di un nuovo contesto sociale. Questo è il vantaggio più rilevante che abbiamo su di loro.

Ad esempio, oggi noi possiamo parlare della Federazione della Siria del Nord, del Cantone di Cizire o di un altro Cantone. Quando ne discutiamo, forse non ci rendiamo conto di quanto ciò sia importante. Ma essere una federazione o un cantone non è affatto una cosa semplice. Che cosa significa? Significa creare un’isola in mezzo all’oceano. Questo è incomprensibile per coloro che non riescono a riconoscere il nemico. Non è possibile capirlo se non si prova e non si sperimenta la libertà. Noi diciamo che cercare di capire la situazione con valutazioni politiche superficiali non porta ad altro che a fare demagogia.

E allora che cosa sta nascendo qui in Rojava? Cosa sta succedendo a Kobanê e Afrin? E nel complesso, cosa rappresenta la Federazione della Siria del Nord? Se ci pensiamo, ci rendiamo conto che in queste aree il movimento non ha risposto solo alla ricerca di libertà della popolazione, ma anche che sono state realizzate aree in cui vivere liberamente. Queste aree di libertà iniziano ad apparire come piccole isole. Queste isole si uniscono e cercano di formare una federazione per evitare di essere emarginate. Cercano anche di acquisire uno status universale unendosi al movimento rivoluzionario internazionale.

Dobbiamo constatare che il capitalismo si trova senza soluzioni di fronte alla sua crisi strutturale e che le strutture egemoniche presentano numerose divergenze. Queste, insieme al caos, danno alle potenze rivoluzionarie un grande vantaggio. Pertanto, la ricerca della libertà da parte dei popoli, l’anelito dell’umanità a ritrovare la propria identità e i risultati di questo desiderio in Medio Oriente e in Rojava offrono opportunità più che adeguate per lo sviluppo della lotta per la libertà.

In alcuni Paesi occidentali, soprattutto in America Latina, i regimi siriano e iraniano sono considerati anti-imperialisti. Recentemente anche il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha iniziato a usare una retorica antiamericanista e anti-Ue. Cosa si nasconde dietro l’antiamericanismo di questi Stati? Sono davvero anti-imperialisti o possiamo dire che si tratta del risultato di una lotta interna tra potenze colonialiste?

In Occidente ci sono molti movimenti che possiamo definire anti-sistema. Questo va riconosciuto. Nella storia, ci sono stati movimenti e correnti che hanno condotto lotte per la libertà. Ora, si tratta di forze davvero grandi in opposizione al sistema, questo dobbiamo riconoscerlo con chiarezza. E l’America Latina ne è un centro importante. La guerriglia dei movimenti socialisti negli anni Sessanta ha rappresentato un importante fronte di lotta rivoluzionaria. Ma anche loro hanno avuto i loro problemi. Ad esempio, in Occidente, i movimenti anti-sistema sono molto separati, marginali e isolati l’uno dall’altro. Il loro modo di gestire i problemi ideologici, politici e organizzativi presenta gravi disfunzioni. Faticano a trasformarsi in movimenti antisistema e libertari, e al contempo stentano a distinguere i veri movimenti ideologici, politici e militari antisistema. Mancano di una visione strategica che consenta loro di sviluppare un’identità.

Basta prendere un movimento a caso in Occidente per poterlo criticare con precisione. Ad esempio, se valutiamo i 150 anni di storia del marxismo, ci accorgiamo che è sfociato principalmente nel socialismo reale. La realtà del socialismo reale può essere analizzata sotto diversi punti di vista. Naturalmente, il marxismo è espressione di una posizione anti-sistema. Rappresenta un punto di svolta nella lotta contro l’egemonia e comprende un patrimonio di cento o centocinquant’anni. Questo non si può negare. Tuttavia, in ultima analisi, dobbiamo interrogarci sul fatto che un percorso di libertà si sia trasformato nel socialismo reale e che quindi si sia messo in una posizione tale da risultare sangue fresco per il sistema. Ora, nella prospettiva del socialismo reale, non è possibile adottare una linea libertaria, né tantomeno è possibile valutare correttamente e supportare una tendenza vincente già in atto. Allo stesso modo, se consideriamo l’anarchismo, le differenze tra le sue diverse correnti sono principalmente di tipo quantitativo. Non sussiste alcuna differenza sostanziale tra di loro. Dal punto di vista filosofico, il loro approccio alla libertà, all’uguaglianza e il loro atteggiamento nei confronti del potere costituiscono un patrimonio prezioso. Ma poiché non riescono a esprimere tale patrimonio nell’ideologia, nella lotta, nella resistenza e negli aspetti organizzativi, non riescono più ad inserirsi nella società per costituire la prospettiva della vittoria. E siccome non riescono a farlo, trattano tutte le lotte sviluppate altrove nel mondo secondo la stessa equazione, secondo il loro approccio e il loro modo di sentire.

Nonostante i bei discorsi radicali, non riescono a liberarsi dello stile di vita e del sistema di relazioni del capitalismo. Questo è un aspetto fondamentale per il fronte della libertà. A questo fronte possiamo aggiungere anche le correnti femministe ed ecologiste.

Se analizziamo la loro posizione, sebbene sembri che esse siano contro il sistema, troviamo un enorme arretramento e un grave dogmatismo. In questo caso prevale una grave autarchia politica. Ma isolarsi da tutto può solo portare all’autodistruzione.

La stessa cosa vale per l’America Latina. L’America Latina ha attraversato periodi storici cruciali. Ha portato avanti lotte contro il colonialismo spagnolo e portoghese, contro l’imperialismo statunitense. Soprattutto negli anni ’60, ha condotto una lotta per il socialismo, alla quale ha poi contribuito con la guerriglia. Bisogna dargliene atto. Ma se guardiamo alla situazione attuale, possiamo vedere che esiste un problema fondamentale. Il socialismo non può essere realizzato con gli strumenti del capitalismo.

Per esempio, si può affermare chiaramente che coloro che oggi si battono per il socialismo non si spingono oltre il socialismo reale. Basandosi essenzialmente su un approccio nazional-statalista e favorevole al potere, non potranno mai pervenire a una vera linea socialista. Il problema dei movimenti antisistema in Europa e in America Latina deriva da ciò.

Il loro approccio si riassume in questo: “chi è contro il sistema è anticapitalista”. In realtà, l’anticapitalismo ha dei criteri propri. Ci sono Paesi che rappresentano il capitalismo e l’imperialismo, pur essendo tra loro nemici. Queste persone si illudono che il semplice fatto di rifiutare qualsiasi relazione con questi Paesi sia sufficiente per dimostrare la propria posizione rivoluzionaria. Si sbagliano a credere che questa sia la definizione di libertà. Quando però osserviamo le loro vite, ci accorgiamo subito del fatto che esse vivono all’interno del capitalismo o dell’imperialismo stesso. Abitano nelle città del sistema, sottoposte al suo potere, in base alla sua identità e all’interno del suo mercato. Si trovano coinvolte fino al mento e si illudono di essere libertarie. C’è qualcosa che non va. Come sappiamo, questo era già il problema del socialismo reale. Queste persone per la loro ignoranza pensano che sia possibile realizzare il socialismo con gli strumenti fondamentali del capitalismo.

La maggior parte dei movimenti anti-sistema sta distogliendo lo sguardo dalla propria condizione di schiavitù mentale all’interno del sistema e si autoinganna con le proprie ideologie e i propri dogmi di anti-imperialismo e anti-capitalismo. Questi movimenti prendono posizione sulla situazione in Medio Oriente senza pensare a ciò che sta realmente accadendo, a quali fattori storici e sociologici sono in gioco e a quali siano i rapporti tra questi e le potenze globali. Questa è una grandissima vergogna.

Dovrebbero invece concepire il sistema imperialista globale tenendo conto delle sue componenti interne, ossia gli Stati nazione. Dovrebbero capire che le contraddizioni tra questi ultimi sono dovute alla lotta per lo sfruttamento e l’egemonia, non per l’uguaglianza, la libertà o la giustizia. Non è possibile opporre questi poteri sotto il profilo ideologico. Solo i popoli, i movimenti socialisti rivoluzionari e i settori sociali possono contrapporsi ad essi.

Ora, se prendiamo in considerazione la realtà latinoamericana, non intendo certo negare il suo carattere antimperialista. Non abbiamo mai avuto obiezioni contro una linea di lotta democratica contro l’imperialismo. Ma dobbiamo guardare a ciò che queste lotte sono state in grado di realizzare.

È necessario osservare in che modo il socialismo latinoamericano, nella sua lotta antimperialista, sia caduto nella trappola dell’antiamericanismo. Dobbiamo tenere presente questo aspetto quando consideriamo i discorsi antimperialisti e anticapitalisti di quanti conducono la lotta per il socialismo in America Latina. Dobbiamo riuscire a valutare se il loro approccio ideologico è contro un sistema globale o se sta invece perseguendo una certa agenda locale, che trasformi la loro politica effettiva in antiamericanismo. Certo, essa è anti-americana. Ma anti-americanismo non è sinonimo di anti-imperialismo. Gli Stati Uniti sono imperialisti. Naturalmente è necessario prendere posizione contro l’imperialismo americano. Ma essere anti-imperialisti è un’altra cosa. Essere antimperialisti significa essere contro l’ordine mondiale capitalista, contro l’egemonia che l’imperialismo esercita nel mondo e contro i centri sub-egemonici dell’imperialismo. Dire “sono contro gli Stati Uniti” non significa nulla in questo senso. Questa è la posizione attuale del socialismo latinoamericano. Si oppone agli Stati Uniti e ha conseguito enormi successi nella sua lotta, ma ha anche stretto relazioni con Paesi sub-egemonici associati all’imperialismo. Ciò ha generato una situazione davvero problematica. Anche il capitalismo dell’Europa occidentale è un’espressione dell’imperialismo. Lo spirito rivoluzionario dell’America Latina dovrebbe estendere la posizione antiamericana all’intero imperialismo occidentale. Si trovano a dover affrontare problemi molto complessi a causa di ciò. Non è affatto ragionevole affermare che quell’imperialismo che non mi attacca è giusto.

L’imperialismo è una tendenza generale che si articola in vari centri. Senza opporsi a tutti, è impossibile sconfiggerne anche solo uno. A causa di questo approccio, l’antiamericanismo non è mai stato in grado di conseguire una vittoria per l’America Latina. Esso non può portare alla vittoria perché non si è trasformato in antimperialismo. Per questo motivo, pur avendo vinto contro i portoghesi prima e gli spagnoli poi, non sono riusciti a rompere il loro rapporto di dipendenza.

Le guerre di guerriglia condotte per il socialismo non hanno dato i risultati sperati. Perché? È necessario interrogarsi su questo punto. La ragione principale è l’inadeguatezza dell’approccio. Ciò risulterà più chiaro osservando alcuni esempi concreti. Se si guarda con attenzione, è inevitabile riconoscere che è stato l’antiamericanismo a portare a questo risultato. Stiamo parlando delle sub-egemonie del sistema mondiale imperialista. Ogni luogo in cui esista l’egemonia di uno Stato-nazione costituisce al contempo una sub-egemonia dell’imperialismo. Lo sfruttamento è un ambito sub-egemonico. Non si può scindere questo aspetto dall’imperialismo. Ogni centro organizzato all’interno del sistema mondiale capitalista, come uno Stato-nazione, è una sub-unità dell’imperialismo. E ogni potenza sfruttatrice e coloniale incarna una sotto-unità dell’egemonia imperialista. È su queste premesse che l’imperialismo è riuscito a diventare un sistema mondiale. Se guardiamo alla visione antimperialista dell’America Latina, notiamo più che altro una postura che considera antimperialiste tutte le forze in conflitto e in guerra con gli Stati Uniti e che pertanto cerca di stabilire con esse delle relazioni.

Prendiamo un esempio concreto: Pensiamo alla realtà del Kurdistan. Il Kurdistan è diviso in quattro parti. Questa divisione è avvenuta durante la Prima guerra mondiale. Alla fine della Prima guerra mondiale, venne creato un sistema internazionale che ripartì il Kurdistan tra quattro forze colonialiste. Queste quattro potenze colonialiste che dominano il Kurdistan sono state sovvenzionate ininterrottamente dagli imperialisti e avviate a diventare Stati nazionali. Ma nel corso di questo periodo, le contraddizioni sono emerse in modo evidente. Ora, se consideriamo l’America Latina alla luce di queste premesse, la questione non appare così ovvia. In America Latina, il sistema coloniale creato dalle forze capitaliste e imperialiste non si avvale di collaboratori locali. In ogni caso, ognuno dei regimi, che si tratti di Iran, Siria, Turchia o Iraq, cerca di darsi un’immagine antimperialista quando emergono contrasti con gli Stati Uniti in merito ai loro profitti. Pertanto, i massacri perpetrati da questi regimi contro i curdi vengono ignorati. Questo punto di vista deve assolutamente cambiare. Il sistema mondiale degli Stati è un sistema capitalista, imperialista e colonialista. La contraddizione tra le parti di questo sistema non può in alcun modo essere definita come antimperialismo. Ad esempio, l’attuale governo turco, pur essendo un governo colonialista, fascista e fondamentalista, è stato sostenuto da alcuni a causa delle sue contraddizioni con gli Stati Uniti. Le controversie della Turchia con gli Stati Uniti sono state interpretate come anti-imperialiste. In compenso si tende a ignorare il suo carattere colonialista, soprattutto nei confronti dei curdi, e la sua dipendenza dall’imperialismo. Come può davvero questo passare per anti-imperialismo?

La Turchia è un concentrato di capitalismo e nazionalismo, oltre che di fondamentalismo e statalismo nazionale. La Turchia è un alleato strategico degli Stati Uniti e una delle maggiori forze militari. Come si può quindi considerarla una potenza antimperialista solo per le sue temporanee contraddizioni con gli Stati Uniti? Questo è un approccio capitalista-liberale che si colloca perfettamente all’interno del sistema.

Lo stesso discorso vale anche per i partiti Ba’ath che un tempo erano i preferiti dai governi rivoluzionari dell’America Latina. Tutti sanno che i partiti Ba’ath sono le forme più marce e più imperialiste del nazionalismo arabo e dello statalismo nazionale arabo. È una vergogna che essi vengano considerati antimperialisti solo per il fatto di aver avuto stretti legami con il blocco sovietico e di essere stati qualche volta in conflitto con gli Stati Uniti. I regimi Ba’ath sono noti per la loro crudeltà nei confronti dei popoli del Medio Oriente.

Analoghe considerazioni valgono per l’Iran. L’Iran è un regime fondamentalista fondato su una delle sette dell’Islam. La sua struttura attuale non è separata dall’ordine mondiale capitalista. Ha stretti legami con l’imperialismo. Se guardiamo agli ultimi anni, possiamo constatarlo attraverso esempi concreti. Basta osservare la posizione assunta dai governi di sinistra dell’America Latina per rendersene conto. Le relazioni basate sull’idea che l’Iran sia una potenza antimperialista a causa delle sue contraddizioni con gli Stati Uniti, mostrano quanto sia problematica la posizione delle forze antimperialiste dell’America Latina. Guardate Cuba, il Venezuela e altri Paesi latinoamericani dove ci sono governi di sinistra che si agitano continuamente contro gli Stati Uniti – questi si complimentano con le potenze sub-egemoniche dell’imperialismo in Medio Oriente e in Asia semplicemente per la loro posizione antiamericana. Si tratta di una grave allucinazione.

Ci tengo a ribadirlo: essere antiamericani non equivale automaticamente a essere antimperialisti. Antiamericanismo significa essere contro un centro dell’imperialismo. Limitarsi a essere antiamericani significa legittimare altre potenze colonialiste e imperialiste. Occorre pertanto dotarsi di un paradigma forte e ben fondato per la nostra visione del sistema capitalistico mondiale e della sua egemonia imperialistica. Se consideriamo la questione da una prospettiva paradigmatica, non basta limitarsi a commentare gli sviluppi politici quotidiani, ma è necessario avere una prospettiva complessiva per analizzare il sistema capitalistico mondiale e la sua egemonia imperialistica. Una prospettiva del genere è necessaria per poter individuare in modo accurato chi è veramente uno strumento dell’egemonia imperialista e chi sta lottando contro di essa. In questo senso, sussiste una grande criticità nei movimenti anti-sistema e nella radicata tradizione di liberazione dell’America Latina. È necessario superare questa illusione.

Prima dell’inizio dell’operazione su Raqqa si è tenuto a Londra un incontro tra il Segretario alla Difesa statunitense e il Primo Ministro turco Binali Yıldırım. Dopo questo incontro gli Stati Uniti hanno rilasciato una dichiarazione in cui si afferma che le YPG non sono una preferenza ma una necessità per gli Stati Uniti. Pensi che questa dichiarazione sia stata pronunciata per venire incontro alle preoccupazioni dello Stato turco, oppure si è trattato di una suggestiva sintesi delle politiche americane in generale e delle forze imperialiste e coloniali in particolare?

La frase pronunciata dal ministro della Difesa americano prima dell’operazione di Raqqa è effettivamente molto significativa. È proprio quello che ho cercato di spiegare fin dall’inizio. In effetti, il ministro ha fatto una dichiarazione estremamente corretta con una sola frase. L’America non può permettersi di avere preferenze, essa si trova solo di fronte a necessità. Non è rimasta alcuna potenza in Siria con cui l’America non abbia cercato di collaborare. La lista va oltre la portata di questa intervista, non mi dilungherò su di essa.

Con quali gruppi gli Stati Uniti non hanno tentato di allearsi? Hanno provato con i sauditi, con la Turchia, con tutti gli altri gruppi salafiti. Ha provato ad allearsi con l’FSA e con molte altre forze simili. Insomma, non rimane altra forza con cui tentare. Ma con nessuno di questi “alleati” l’America è stata in grado di ottenere i risultati desiderati. E di certo non poteva riuscirci. Così, ha investito molto nell’alleanza tra Turchia, Arabia Saudita e Qatar, ma alla fine è entrata in conflitto con tutti loro. Non c’è forza salafita con cui gli Stati Uniti non abbiano cercato di allearsi, compresi Al Nusra e l’ISIS. Tutti hanno fallito. Per questo motivo, il PYD, le YPG o, più precisamente, il movimento curdo non sono stati mai sostenuti e la loro stessa esistenza non è neppure stata menzionata.

La lotta per la libertà del popolo curdo è stata immolata al colonialismo turco e agli interessi dell’Arabia Saudita. La situazione del Regime siriano è stata osservata e anche il Regime è stato sacrificato nell’ottica di relazioni statali a lungo termine. Credevano di poter conseguire dei risultati avendo una sorta di controllo sulle forze salafite. Ma non ha funzionato. L’investimento in queste forze salafite si è trasformato in un disastro interno. L’investimento di Sauditi e Turchia ha raggiunto una scala che contribuisce a creare un Medio Oriente più religioso e salafita. In definitiva, gli Stati Uniti sono arrivati al punto in cui la politica da loro promossa ha fallito in tutti i sensi. In altre parole, anche la Turchia, che è stata un alleato strategico per quarantacinque anni, ha abbandonato la NATO e la linea occidentale, per passare a una linea neo-ottomana e salafita, utilizzando l’ISIS e Al-Nusra. Tutto questo ha esercitato una certa pressione sugli Stati Uniti.

D’altra parte, l’America ha scommesso su una linea nazionalista in seno ai curdi. Nel Kurdistan meridionale, ha dato un sostegno illimitato alla linea del KDP che gestisce il KRG. Ma il sostegno dato alla linea del KDP ha presentato di nuovo gli stessi problemi e risultati. Mentre la linea del KDP ha trascinato il partito in un’alleanza segreta con l’ISIS, le relazioni strategiche che il KDP ha avviato con la Turchia hanno di fatto vanificato gli investimenti fatti dagli Stati Uniti. Essi non erano più presenti né nel Kurdistan meridionale né in Rojava. Così, tutte le basi della politica statunitense sono state distrutte una ad una. Si è arrivati a un punto in cui si è creata una situazione di caos. E non è stato più possibile per gli Stati Uniti seguire una strategia basata su una forza diversa da quella che non avrebbero mai voluto in una situazione di caos: il movimento di liberazione curdo. L’Iraq è finito nelle mani dell’Iran. Il KDP è nelle mani della Turchia. Al-Nusra, ISIS, Ehrar al-Şam, ecc. Tutte queste forze sono state assorbite da sauditi e turchi. Per di più, non si potevano mantenere relazioni con questi soggetti perché essi stanno commettendo grandi crimini contro l’umanità. Il regime non era in una posizione promettente. L’America ha provato a fare tutti questi investimenti e alla fine ha fallito. Non è rimasta alcuna forza su cui gli Stati Uniti potessero basare la loro politica.

La resistenza curda, in particolare a Cizîre e Kobanê, ha dato vita a una nuova situazione. Pertanto, gli Stati Uniti sono stati costretti ad allearsi con le forze che non volevano e che avevano persino cercato di distruggere aiutando la Turchia e l’Arabia Saudita. Nessuno però è disposto a vedere quanto accaduto. Insomma, le YPG o il PYD hanno forse implorato gli americani: “Ci stanno uccidendo, venite a salvarci e siamo pronti ad arrenderci a voi in qualsiasi modo desideriate”? Hanno mai detto qualcosa del genere? No. Anche senza una retorica di questo tipo, per gli Stati Uniti era comunque inevitabile impegnarsi in un rapporto tattico con queste forze. Gli USA sono stati costretti a farlo.

Gli Stati Uniti non avevano altra scelta in una situazione del genere. Per di più, gli Stati Uniti volevano impegnarsi in una lotta vincente contro l’ISIS. Se da un lato questa relazione ha portato agli Stati Uniti un grande prestigio e un rafforzamento della loro posizione, dall’altro le YPG hanno ottenuto un sostegno materiale per la loro lotta per la libertà. Gli Stati Uniti hanno guadagnato prestigio sia nell’opinione pubblica mondiale che in quella interna alla lotta contro l’ISIS a Kobanê. Le relazioni tattiche allacciate con questa forza sono proseguite e sono state liberate nuove zone. Oggi, l’est dell’Eufrate è un territorio dove si è vinto molto nella lotta per la libertà. Attraverso questa alleanza tattica, gli Stati Uniti hanno legittimato la loro presenza in Medio Oriente e hanno avuto una nuova opportunità di conquistare il Medio Oriente. Ma occorre capire bene una cosa.

La presenza degli Stati Uniti in Siria non riguarda solo la Siria. Non mira a sfruttare la Siria del Nord e a ottenere guadagni materiali da lì. È difficile per chiunque ricavare profitti da una Siria devastata. L’obiettivo principale degli Stati Uniti è quello di presentarsi come leader mondiale in Medio Oriente e di influenzare gli sviluppi della regione. Questo possono farlo solo impegnandosi direttamente sul campo. È per questo che la relazione è molto importante per gli Stati Uniti. È un dato di fatto che gli Stati Uniti non digeriscono facilmente il dominio di una linea socialista nel nord della Siria. È anche noto che per questo motivo è in corso una lotta molto dura tra le parti e le varie relazioni.

Gli Stati Uniti perseguono una politica volta a far sì che tra i curdi si affermi una linea maggiormente nazionalista. Per questo motivo, vogliono liquidare la linea della libertà in Rojava e, di fatto, si affidano alla politica di un KDP marcio e corrotto che è stato ripetutamente sconfitto, promuovendo l’idea dello stato-nazione e del nazionalismo. Parte di questa strategia consiste nell’usare la Turchia come leva contro i curdi del Rojava. Mentre sostengono la Turchia nella lotta contro il PKK, cercano di indebolire la linea di Öcalan in Rojava. Dicono: “Non potrete sentirvi sicuri senza abbandonare la linea del PKK”. Si tratta della strategia di allontanare la rivoluzione del Rojava dalla linea socialista e di integrarla nel sistema mondiale liberale. Al momento, questa relazione funziona fino a un certo punto. Andrà avanti fino a quando sarà possibile. Ma i nuovi sviluppi politici possono sempre far emergere nuove situazioni. Questa non è una situazione che piace molto all’America. Lo stesso vale per le forze della Siria del nord. Per entrambe le parti si tratta di una necessità. Gli Stati Uniti sono costretti in questa situazione dalle politiche dei loro alleati in Medio Oriente.

Ma il problema non è solamente di natura politica: né gli Stati Uniti né i loro alleati possono prendere la guida del Medio Oriente con il vecchio approccio e le vecchie politiche. Sta nascendo un nuovo mondo e un nuovo Medio Oriente. Insistere sul vecchio non significa altro che remare contro la corrente della Storia. Gli Stati Uniti, sebbene siano molto più flessibili, non sono comunque in grado di cambiare radicalmente la loro politica. Pertanto, cercano di far ragionare i loro alleati, come Turchia e Arabia Saudita, sulla loro situazione. Dicono: ” Ma mentre io sono impegnato nei miei rapporti tattici, voi mi mettete sotto pressione? Siate pazienti”. Le cose, però, non vanno come credono loro. Per quanto il problema statunitense sia oggi di natura tattica, se questo rapporto tattico venisse interrotto, non ci sarebbe alcuna forza alternativa da sostenere. Sembra quindi molto difficile che questo rapporto tattico si converta in un conflitto in breve tempo, dal momento che non c’è la più piccola forza che possa esprimere una propria influenza a livello locale.

Sia le politiche delle potenze regionali che gli approcci della Turchia spingono in tal senso. La situazione attuale non è voluta da nessuno, è una necessità che è emersa. Ma è altrettanto doveroso analizzare l’emergere di questa necessità.

Coloro che hanno portato al collasso le politiche fallimentari dell’imperialismo statunitense in Medio Oriente sono i loro alleati locali, i loro collaboratori e le rispettive politiche, se non addirittura le politiche statunitensi. Questi ultimi hanno condotto le proprie politiche in un circolo vizioso e si sono condannati alla loro stessa disfatta. Erano due le opzioni: andarsene, come in Vietnam, o ritrovarsi obbligati a un rapporto imprevisto. Dal punto di vista dell’egemonia mondiale, andarsene avrebbe significato arrendersi.

Dal momento che non si sono arresi, sono stati costretti a impegnarsi in una relazione impensata. La situazione è equiparabile a quella del PYD. Se la lotta per la libertà sviluppata dai curdi fosse stata adeguatamente compresa dalle forze antiglobaliste e antimperialiste, e quindi se tutti si fossero concentrati maggiormente su questo punto, la linea della libertà sarebbe stata molto più limpida, molto più trasparente. Avrebbe potuto diventare dieci volte più potente di quanto non sia oggi.

Ma siccome tutti hanno avuto un approccio fortemente angosciato e scettico e hanno preferito isolarsi piuttosto che mettersi a rischio, poiché hanno deciso di non cogliere il significato politico e ideologico della creazione di uno spazio di libertà in Rojava, i rivoluzionari sul campo sono stati costretti a stringere alleanze tattiche indesiderate per continuare a esistere all’interno dell’inferno del Medio Oriente. A cosa assomiglia? Assomiglia all’accordo che Lenin fece con i capitalisti per salvare la Rivoluzione d’Ottobre in Unione Sovietica. Assomiglia a Stalin che lotta contro il fascismo, senza però voler combattere il fronte imperialista.

Hai affermato che gli Stati Uniti sono arrivati al punto di collasso. Possiamo dire che gli Stati Uniti hanno cercato di ricostruirsi una esistenza nella regione sulla base delle conseguenze della resistenza di Kobanê? Possiamo dire che a un’America ormai al collasso è stata data la possibilità di rientrare in campo assieme alla resistenza?

Indubbiamente, il corretto approccio politico consiste non in un atteggiamento reazionario e dogmatico, ma nell’appoggiare la vittoria di un movimento socialista. Vorrei sapere se in questo caso sarebbe stato il caso di dire: “Lasciate che l’America scompaia dal Medio Oriente, lasciateci morire insieme”. Beh, se avessimo accettato di morire insieme all’egemonia degli Stati Uniti nella regione, senza dubbio il movimento socialista non ne avrebbe ricavato granché. Si tratta di uno scenario creatosi in seguito a questi sviluppi. E non si deve interpretare in modo sbagliato.

L’America è giunta a questo punto di crisi politica. Dobbiamo quindi assistere alla condanna a morte di coloro che hanno lottato per la libertà? Chi emette la condanna a morte? Tutti eccetto i curdi, che lì hanno resistito. Ora, le forze della libertà resisterebbero contro chiunque, seppur con le loro limitate possibilità. Dunque, restano due opzioni: o oppongo una resistenza totale, vengo annientato e finisco così nei libri di storia, oppure posso perseguire una politica e delle alleanze tattiche e riportare una vittoria.

L’ISIS ha sferrato un attacco ai curdi per motivi strategici. Cerchiamo di capirne la logica. Dal momento che l’ISIS si trovava in una posizione e in una condizione così solide per cui nessuno in Medio Oriente aveva potuto impedirgli di conquistare il 60% dell’Iraq nel giro di una notte, e per cui aveva il potere di rovesciare i regimi iracheno e siriano, allora ci si deve chiedere come mai l’ISIS non abbia terminato la sua campagna. Per quale ragione strategica avrebbe attaccato il Kurdistan, in particolare Cizîrê e Kobanê? Se avessero preso di mira lo Stato siriano o quello iracheno, avrebbero potuto annientare da un giorno all’altro entrambi gli Stati. Stiamo parlando della stessa forza che in una notte ha fatto di Raqqa la sua capitale e ha conquistato Mosul con le sue centinaia di migliaia di soldati. Ha seminato il terrore e chiunque sentisse il suo nome fuggiva.

È chiaro che questi sviluppi non sono legati alla sola influenza dell’ISIS. Anche i Paesi del Golfo e persino la Giordania, sentendo il nome dell’ISIS, erano pronti a fuggire. Ma l’ISIS non ha agito in questo senso. Si è invece rivolto contro i curdi, in particolare contro i curdi del Rojava. Questa è la prova che l’ISIS non è un attore salafita indipendente. Dimostra piuttosto che esso ha agito in relazione con le forze egemoniche nel mondo e nella regione, muovendosi in base a relazioni strategiche e tattiche.

È fondamentale analizzare il motivo per cui tutte le potenze reazionarie del mondo e della regione hanno spinto l’ISIS contro i curdi, proprio quando la piena vittoria di quest’ultimo era ormai alle porte. Due luoghi sono stati determinanti ai fini di un attacco così brutale: prima Şengal e poi Kobanê. Questi erano i punti in cui i curdi e la linea della libertà dovevano essere liquidati. I reazionari della regione avevano emesso una fatwa contro il nostro movimento di liberazione e i curdi.

Quando il PKK sarà stato liquidato, saranno cancellate sia la linea socialista della libertà, sia i curdi. Pertanto, la formazione più barbara del Medio Oriente, emersa in questa congiuntura, ha guidato la corrente ideologica più reazionaria del mondo contro i curdi a Şengal e a Kobanê. Ma entrambi i casi si sono rivelati dei trionfi per il nostro movimento per la libertà e per i curdi.

Se i curdi vogliono preservare la loro esistenza, essi sono costretti a resistere a tutto ciò; se la linea del socialismo vuole trionfare, essa pure è costretta a resistere a tutto ciò. Per questo, il PKK e le YPG/YPJ hanno difeso la posizione, con tutti i mezzi necessari. Si è trattato di una lotta per l’esistenza e la libertà; o la si vinceva, o saremmo stati annientati. I risultati della lotta condotta in entrambi i luoghi hanno fatto sì che l’identità curda diventasse un elemento essenziale dello scenario globale.

È possibile citare una forza omogenea che abbia vinto in Medio Oriente e nel mondo nella lotta contro l’ISIS? Si può dire che “l’Iraq ha avuto successo in questo modo, l’Iran in quell’altro, la Siria, l’America…?”. Ovviamente no. Ognuno di questi attori non ha alcuna titolarità se non quella di reclamare una parte del successo della lotta e della resistenza sul campo contro l’ISIS e di trarne profitto.

Una sola è la corrente che possiamo ritenere abbia sconfitto l’ISIS in quest’area: la linea della leadership del PKK e le sue varie espressioni in Medio Oriente. Solo loro hanno combattuto efficacemente contro l’ISIS, hanno resistito davvero e hanno riportato un successo. Vedete cosa è successo a Kobanê? A Kobanê i curdi hanno sbaragliato l’ISIS ufficialmente. A Kobanê si è aperta una frattura all’interno dell’ISIS, e questo è stato battuto. In quel punto l’ISIS ha mobilitato tutto il suo potere. Avrebbe conquistato Kobanê e finito i curdi e la libertà, oppure sarebbe stato sconfitto e avrebbe finito di esistere. Del resto, i vincitori di Kobanê sono diventati una forza notevole in Medio Oriente.

Dopo la vittoria di Kobanê, nessuno è stato in grado di fermare il conto alla rovescia che ha portato alla sconfitta dell’ISIS. Un mese dopo la disfatta di Kobanê, l’ISIS è stato battuto a Til Ebyad e dieci giorni dopo sulle montagne di Abduleziz. Si è trattato di una serie di vittorie contro l’ISIS a partire da Hesekê, Eyn al Isa e infine Raqqa e Deir ez-Zor. Lo stesso vale anche per l’Iraq. Non bisogna farsi ingannare dalla pubblicistica e dalla propaganda delle boriose potenze imperialiste mondiali. Quando l’ISIS entrò in Iraq, il Paese e lo Stato, pur con le sue ricche risorse, non riuscì a resistere nemmeno un’ora di fronte all’ISIS. L’ISIS arrivò dal confine siriano e prese la città di Mosul in un baleno.

In soli due giorni l’ISIS mosse da Mosul fino al confine con l’Iran e si fermò alle porte di Baghdad. Nell’altra direzione, si spinse fino al confine con la Giordania. L’intera operazione di conquista richiese un totale di tre-cinque giorni. Nessuna potenza riuscì a contrastarla. Né la coalizione internazionale degli Stati Uniti, né le potenze egemoniche della regione, né l’Iran furono in grado di opporvisi. L’Iran non è riuscito a fermare l’ISIS, neppure con il sostegno delle forze di Hezbollah e di Gerusalemme.

Ma l’ISIS è stato fermato a Şengal e stroncato a Kobanê. L’ISIS fu incitato a commettere un immane sterminio a Şengal contro il popolo degli Êzîdî. I partiti nazionalisti curdi, che fin dall’inizio della strage si erano accordati con l’ISIS, disarmarono la popolazione e si diedero alla fuga. La popolazione venne lasciata sola ad affrontare il massacro. Prima che i guerriglieri del PKK dalle montagne e le forze delle YPG/YPJ dal Rojava raggiungessero Şengal, decine di migliaia di persone erano già state massacrate. Ma quando queste forze arrivarono a Şengal, gli eccidi cessarono. Una volta arrestati i massacri, le forze dell’ISIS vennero costantemente ricacciate indietro. Se avessimo abbandonato quelle terre, oggi non ci sarebbero più curdi. Non potremmo più parlare in nome dei curdi e i curdi stessi sarebbero stati liquidati. Questo è il risultato della politica del sistema mondiale nata dopo la prima guerra mondiale, che considera i curdi come un facile bersaglio.

In questo caso, gli approcci statalisti, nazionalisti e religiosi avrebbero vinto un’altra volta, insieme al loro carattere omicida. Ma ciò non è accaduto. I curdi si sono uniti all’insegna della propria identità etnica e culturale e hanno combattuto per questi luoghi. Le potenze dominanti volevano ancora una volta distruggere la quarantennale linea socialista e libertaria del movimento del PKK. Ma di fatto, la curdità e linea democratica, libertaria e socialista sono ora intrecciate in modo organico. È questa la linea che consente la vittoria della curdità, non il nazionalismo arcaico. Dopo la dissoluzione del socialismo reale, è la lotta dei curdi e delle altre forze rivoluzionarie della regione che si esprimono nella lotta del Rojava, a dare un nuovo senso e una nuova dignità all’identità e all’ideologia socialista.

Se Kobanê fosse caduta, se il massacro di Şengal fosse stato ultimato, non ci sarebbe stato più posto per questa linea di libertà. Dovevamo diventare una fiaccola di libertà per il mondo, oppure dovevamo essere distrutti. Il costo di una simile impresa e il suo valore erano altissimi. In tutte e due le situazioni, il successo è stato ottenuto. E questo successo ha aperto la strada alla libertà e all’identità etnico-culturale dei curdi. Se oggi i curdi vengono consultati nel processo decisionale è grazie a quei due luoghi. Una linea curda che rinnega questi due luoghi non potrà mai avere successo. Coloro che vorrebbero servirsi della curdità rinnegando questi due luoghi saranno presto liquidati come opportunisti e verranno sconfitti. Ma coloro che comprendono la profondità e il valore del filo che lega queste due vittorie potranno resistere con le proprie forze.

Dopo la cattura del leader curdo Abdullah Ocalan nel 1999, è avvenuto un cambio di paradigma da parte vostra. Questo ha influito sulle relazioni che avete sviluppato con gli Stati Uniti e la Russia? Se non aveste modificato il vostro paradigma, sarebbe comunque possibile per voi sviluppare relazioni con gli Stati Uniti e la Russia? Molti gruppi pensano che il PKK abbia rinunciato alla lotta socialista. Il PKK lo ha fatto cambiando paradigma?

Il PKK è stato un movimento socialista fin dall’inizio. Ma se si guarda a quel periodo e alle condizioni storiche, il movimento si trovava sotto una forte influenza del socialismo reale. Non mancavano gli influssi dei movimenti di liberazione nazionale, in particolare le lotte in Vietnam, la guerriglia in America Latina, la rivoluzione cinese e i movimenti nazionali in Africa. Pertanto, all’origine del PKK ci sono sia il socialismo che la liberazione nazionale. Ma se si considera la situazione del mondo e il panorama ideologico dell’epoca, il PKK si è formato sotto l’influenza del socialismo. Il PKK ha condotto una lunga lotta di liberazione nazionale con queste caratteristiche.

Ma dopo la caduta del blocco orientale e l’integrazione nel sistema capitalistico degli Stati creati dai movimenti di liberazione nazionale, abbiamo dovuto interrogarci su questa realtà. Abbiamo quindi rimesso in discussione sia il socialismo che la liberazione nazionale. Se osserviamo con attenzione, il crollo del socialismo e l’integrazione delle lotte di liberazione nazionale hanno coinciso con il fallimento di diversi movimenti libertari. È stata una sconfitta completa. Anche il PKK ha subito le conseguenze di quel processo. E durante quel momento di passaggio, a differenza di altri movimenti socialisti e di liberazione nazionale, il PKK ha dovuto subire un attacco. Il sistema imperialista ha scelto di colpire il PKK come primo passo del suo intervento in Medio Oriente. Hanno cercato di privare il PKK di una testa e di un’ideologia attraverso la cattura del nostro leader per mezzo di un complotto internazionale.

Se il PKK non è stato distrutto è perché esso si differenzia dai movimenti di liberazione nazionale e socialisti. Sebbene abbia subito gli influssi del socialismo reale, esso possiede caratteristiche uniche. E questo non solo dal punto di vista ideologico, ma anche organizzativo. Il modello di pensiero e di organizzazione, che è tipico delle società del Medio Oriente dotate di coscienza storica, è la ragione principale per cui il PKK non è stato liquidato. La prigionia del nostro leader ha posto in essere nuove circostanze per il PKK. La ricerca di un nuovo modello ideologico e politico era già in corso prima dell’arresto del nostro leader. L’insistenza sulla libertà delle donne e gli sforzi per una risoluzione democratica attraverso i cessate il fuoco erano parte di questa ricerca.

Invece di rimettere in questione il socialismo reale ormai tramontato e di adottare un nuovo approccio a favore degli oppressi, chi mette in dubbio coloro che vogliono elaborare un nuovo approccio a partire dalla sua dissoluzione commette un grave errore. Ciò che intendo dire è che i contenuti del nostro approccio non vengono considerati e compresi; le basi del socialismo reale sono ancora ritenute da molti come il socialismo. In realtà, il cambio di paradigma del nuovo PKK non si basa sulla negazione del socialismo. Ci tengo a sottolinearlo in modo particolare. Si tratta di un nuovo atteggiamento basato sulla critica degli approcci ideologici, filosofici e politici del socialismo reale. È in corso uno sforzo per riformulare il socialismo con un approccio più libertario, egualitario e democratico. In questo senso, il PKK non ha rinunciato al socialismo.

Al contrario, noi stiamo realizzando un nuovo socialismo a partire dalla critica del socialismo reale, grazie soprattutto alle critiche dei movimenti anti-sistema. Tutti i concetti che utilizziamo sono stati sviluppati attraverso la critica del socialismo reale. Questi vanno intesi come i vocaboli libertari, egualitari e democratici di un nuovo socialismo. La guerra in Medio Oriente e le dinamiche che si sono sviluppate a partire da questa situazione non possono essere interpretate attraverso schemi ideologici. La forza e la consapevolezza che il cambio di paradigma ha comportato per il PKK sono state un vantaggio nel fronteggiare la nuova crisi in Medio Oriente. Se il PKK non avesse modificato il proprio paradigma, avrebbe potuto continuare a resistere, ma non avrebbe avuto la possibilità di vincere. Con la fiducia che il cambiamento di paradigma ha creato, invece, ha ottenuto un vantaggio che gli ha permesso di conseguire risultati più significativi.

** Nella terminologia da voi utilizzata più che di socialismo si parla di democrazia, nazione democratica, libertà delle donne, ambiente ed ecologia. A questi termini attribuite nuovi significati che vanno al di là di quelli tradizionali? Rimpiazzate il concetto di socialismo con questi termini?**

Questi non sono concetti che possono prescindere dal socialismo. Socialismo resta sempre e comunque un termine generale. Potremmo dire che questi concetti arricchiscono il significato di socialismo. Ad esempio, il concetto di democrazia viene snaturato quando lo si considera da un punto di vista liberal-capitalistico o real-socialista. Si tratta di una deformazione del termine democrazia. Come si esprime la democrazia in quei sistemi? Semplicemente come un metodo di governo. Questo modo di vedere la democrazia è un’enorme falsità, un inganno. Non è possibile accostare Stato e democrazia. La democrazia può essere definita solo come il modello di autogoverno delle società che precede lo Stato.

Come era organizzata la società prima che emergesse la civiltà e quando ai popoli non serviva uno Stato? I popoli avevano forme di autogoverno che non si basavano sullo sfruttamento, sull’oppressione e sulla conquista. Erano basate su mezzi di autogestione democratica. Sarebbe meglio definire la democrazia in questo modo. Sebbene all’epoca le società fossero amministrate democraticamente, una certa lettura liberale della storia lo nega. Essa presenta la democrazia come un’invenzione della civiltà. Anche le strutture delle civiltà di classe, urbane e statali hanno usato il concetto di democrazia per mascherare lo sfruttamento e il dominio che esercitano sulla società.

Non si può parlare di uno Stato democratico o di un governo democratico all’interno di un sistema classista. Questa è una falsificazione. Se prendiamo il socialismo come punto di riferimento, allora dobbiamo dare un nome all’approccio socialista in materia di governance. Esistono termini per i modelli di amministrazione del socialismo reale. I marxisti, ad esempio, usano il termine “dittatura del proletariato”. Essi inoltre ricorrono al termine “Stato” come elemento di base all’interno della letteratura socialista. Propongono l’egemonia di classe come modello di governo. Definiscono così la democrazia come uno dei metodi di amministrazione dello Stato. In questo modo essi fanno della democrazia la forma puramente passiva di un metodo amministrativo all’interno del sistema statuale, sebbene le società umane l’abbiano adottata per un periodo considerevole della storia come forma determinante di autogoverno prescindendo dallo Stato. La questione è piuttosto preoccupante. Se ci dichiariamo socialisti, per prima cosa dobbiamo esprimere e concepire l’approccio di governance socialista nel modo più libertario possibile. In effetti, non è difficile ritrovare tale approccio nella storia dell’umanità e riadattarlo alla situazione attuale. Lo si può trarre dalle forme di vita egualitaria e libertaria che le società intrattengono nonostante il capitalismo e l’imperialismo.

Le accezioni più moderne che vengono attribuite al termine democrazia erano già presenti nella società naturale e costituiscono le caratteristiche della vita comunitaria. Pertanto, democrazia può essere un termine attuale per indicare un modello di amministrazione egualitario e libertario. Noi usiamo questa parola con questo significato.

Per dirlo più chiaramente, noi usiamo il termine democrazia per indicare il modello di amministrazione nella nostra visione socialista. Non si tratta di un termine di democrazia che si fonda sullo Stato. Lo usiamo per definire l’autogoverno della società. Non si tratta di un concetto distinto dal socialismo o di un disimpegno dal socialismo. Al contrario, esso mira a dare un nuovo significato al socialismo e a stabilire un sistema socialista. Lo stesso si può dire per tutte le altre parole. Senza una critica del socialismo, non saremmo riusciti a sviluppare il socialismo in modo tale da poterlo mettere in pratica nella vita reale.

L’ecologia è un altro tema importante. Dal punto di vista dell’ordine mondiale capitalista o dell’approccio socialista classico, il rapporto tra natura e società è un rapporto conflittuale. Il capitalismo ha reso il mondo un posto invivibile a causa della sua smania di industrialismo e di profitto. L’umanità è sull’orlo dell’estinzione. Di fronte a una tale minaccia, il socialismo come utopia astratta di libertà e uguaglianza non ha più alcuna importanza. Il socialismo dovrebbe dotarsi di un progetto per salvare il mondo e l’umanità. In questo senso, dovrebbe dotarsi di un approccio ideologico per arginare i danni causati al mondo dal capitalismo. Il socialismo reale, purtroppo, non prevede nulla del genere. Si tratta semplicemente di una dichiarazione generale che riporta lo sfruttamento della natura e dell’ambiente da parte del capitalismo.

Il socialismo reale, con il suo approccio nazional-statalista e industrialista, non può evitare di essere partecipe della distruzione ecologica. Inoltre, esso non è in grado di definire il rapporto tra ecologia e società dal punto di vista ideologico. Si tratta di una mancanza profonda.

Questo approccio del socialismo reale è problematico? Sì, certamente. La convinzione di un industrialismo illimitato, la prospettiva che accosta industria e sviluppo e la definizione dell’essere umano come forza egemonica sulla natura costituiscono seri problemi ideologici. Non è possibile immaginare un socialismo senza l’ecologia. Non si può nemmeno parlare di vita senza ecologia. Se invece si mette in relazione il socialismo con la vita, allora si può cogliere meglio il suo rapporto con l’ecologia.

Altrettanto si può dire per la questione della liberazione delle donne. Il capitalismo ha reso la donna una merce e un oggetto. Il capitalismo impone alle donne quanto di più terribile possa esistere. La mentalità dominante maschile conosce la sua forma più acuta nel sistema capitalista. Oggi, senza considerare la libertà, la sicurezza e la condizione della donna nella società e senza definire questi aspetti nel quadro del socialismo, non è possibile né difendere il mondo né realizzare l’uguaglianza, la libertà e la democrazia. La questione della libertà delle donne è troppo complessa, non è possibile affrontarla con un approccio socialista che dica: ” Il problema delle donne si risolverà dopo la rivoluzione”. È qualcosa di molto più serio. Occorre considerarlo come il problema fondamentale del socialismo se non addirittura come il principale problema della vita in senso generale. Chi non riesce a elaborare un approccio specifico riguardo alla libertà delle donne dimostra di avere una scarsa consapevolezza del socialismo.

Cosa succede se consideriamo tutti questi fattori in modo unitario? Diventa chiaro quanto approssimativi e inefficaci fossero gli approcci del socialismo reale ai fini dell’edificazione del socialismo. Appare evidente come le lacune filosofiche, ideologiche e politiche abbiano portato alla distruzione del socialismo. Con il suo cambio di paradigma, il PKK affronta questi problemi, individua delle soluzioni e rifonda il socialismo sulla base di una scienza sociale rinnovata e concreta.

Questa non è una presa di distanza dal socialismo. Significa ridare dignità al socialismo affrontando la questione del crollo e della sconfitta del socialismo reale. Non può esservi alcuna possibilità di sviluppo per i movimenti antimperialisti, socialisti, libertari e antisistema se questi non si interrogano su questo tema. Dobbiamo riflettere sulle conseguenze dell’aver legato il proprio destino a un simile fallimento, quando guardiamo a coloro che sono collassati insieme al socialismo reale. Il PKK è riuscito a rinnovarsi dopo aver valutato correttamente la situazione e aver messo alla prova della critica il socialismo. Esso non ha creato la sua unità e la sua forza dissociandosi dal socialismo, ma al contrario l’ha resa possibile grazie alla filosofia, all’ideologia e alla forma di vita socialista. Solo in questo modo il PKK è riuscito a diventare una forza ideologica e politica in Medio Oriente.

Passiamo ancora un attimo al concetto di nazione democratica. Tutti sanno che l’imperialismo progetta un nuovo ordine mondiale che superi le attuali identità nazionali e lo Stato-nazione. Si sente parlare di un nuovo governo mondiale o di un nuovo Stato mondiale, che andrebbe al di là delle nazioni. La nazione democratica è un’alternativa a tutto ciò? O piuttosto vi risponde?

Alla base della struttura sociale del capitalismo si trova la forma dello Stato-nazione. Se parliamo di Stato-nazione, abbiamo sempre una forma capitalistica. Si tratta della costruzione di un sistema egemonico intorno alla categoria di nazione, ovvero di una forma sociale che viene convertita in un campo di violenza e di sfruttamento per mezzo del monopolio capitalista. Qui il problema principale consiste nel creare la nazione per mezzo dello Stato. La categoria di nazione è piuttosto flessibile e trasversale. Attraverso questa categoria lo Stato ha cercato di omogeneizzare la società. In altre parole, tutte le diverse espressioni della società e della cultura sono vittime di un genocidio di fatto.

Pertanto, creare una nazione su base capitalistica e convertirla in una zona di egemonia significa provocare un gigantesco problema sociale. Ecco che si presenta il problema di fondo del socialismo reale. Il suo più grande errore è pensare di poter progredire e realizzare la libertà ricorrendo agli strumenti e agli argomenti chiave del capitalismo.

Il problema principale del socialismo reale è stato quello di non aver sviluppato un’analisi approfondita dello Stato e della nazione nell’elaborazione del paradigma socialista in opposizione al capitalismo. Esso ha definito la nazione più come fatto etnico che come espressione culturale e ha considerato lo Stato come sede irrinunciabile per le nazioni. Non ha invece considerato il rapporto tra la costruzione della nazione su base etnica ad opera dello Stato, e gli ingranaggi dello sfruttamento capitalistico. Questa circostanza è emersa più chiaramente dopo il crollo del socialismo reale. Aver identificato la libertà con lo Stato e aver tentato di superare quest’ultimo mediante il modello dello Stato-nazione, saldando cioè lo Stato con la forma sociale nazione, è stato un errore gravissimo. Il modello real-socialista ci ha provato per circa 70-80 anni. Alla fine non ha potuto fare altro che integrarsi nel sistema capitalista.

Se prendiamo in esame questo aspetto, possiamo vedere che lo Stato-nazione e la libertà non possono convivere. Il sistema statale è un sistema politico nemico delle libertà. Gli Stati non potranno mai essere fonte di libertà. È certo che non lo saranno. D’altra parte, la nazione è una forma sociale dai confini ben definiti, che racchiude svariate identità sociali, etniche e religiose. E siccome il termine nazione riunisce tutti questi elementi, allora non può essere considerato un termine univoco. Nel sistema dello Stato-nazione, lo Stato è uno strumento di sfruttamento e di egemonia, mentre la nazione completa il quadro in qualità di sistema unico che si fonda su una singola struttura etnica, religiosa o ideologica. In altre parole, essa si fonda sull’assimilazione e sulla rimozione delle diversità sociali. Questo schema deve sussistere affinché lo sfruttamento totale possa riprodursi. Il capitalismo vive essenzialmente di questo.

Esso istituisce un regime di distruzione attraverso l’egemonia dello Stato e del nazionalismo mono-nazionale. Quando il socialismo reale si è presentato come alternativa al sistema capitalista, non è riuscito a superare il paradigma dello Stato-nazione e del suo sistema. Il suo approccio su questi temi venne pressoché ricalcato da quello del capitalismo. È evidente che questo termine è particolarmente problematico. Non è possibile elaborare un’identità socialista senza riconsiderare il concetto di Stato-nazione e senza formulare un’alternativa. Quando noi dichiariamo di non volere uno Stato, la cosa appare strana a molti, anche a coloro che provengono da ambienti nazionalisti o socialisti. I nazionalisti etnici si indignano perché siamo contro lo Stato, ovvero contro uno strumento che porterà al potere la loro identità etnica e li aiuterà a dominare sugli altri. Per contro, i socialisti reali pensano di poter risolvere i problemi di libertà e uguaglianza attraverso la creazione di uno Stato. È come se rifiutare di farsi Stato significasse rinnegare il socialismo e la nazione.

Eppure, lo Stato è proprio una delle istituzioni tradizionali che li massacra entrambi. Nessun socialista libertario può esprimere la propria politica attraverso uno Stato. Lo Stato non è altro che avversione per la libertà e l’uguaglianza. Libertà e Stato non possono coesistere. Pertanto, dobbiamo innanzitutto rinunciare allo Stato. Dobbiamo separare i concetti di nazione e di Stato. La nazione può essere tranquillamente riconosciuta come forma sociale. Cioè può essere adottata senza essere parte di uno Stato-nazione. Ma serve quindi che una definizione di nazione sia molto accurata. Dobbiamo riuscire a spiegare che cosa sia la nazione.

La nazione è una forma sociale. Si tratta però sempre di società composte da culture, confessioni e opinioni diverse. La società è fatta proprio da queste differenze e dalla loro unione. Non possiamo adottare pertanto una definizione di nazione che neghi le diversità e si basi su un’unica identità etnica, di fede e ideologica. Ne risulterebbe una strage di tutte le diversità. Questa non è libertà. Pertanto, è necessario definire e costruire una società senza compromettere la struttura democratica che ne caratterizza la natura. La nazione democratica è la sola vera costituzione della nazione. La nazione democratica è la forma concreta del costituirsi di una nazione. Ogni creazione e realizzazione sociale non democratica è problematica e va contro la natura stessa della società, e alla fine si risolve in una continua violenza e in conflitti. Le unità sociali che compongono la nazione possono essere tenute insieme solo attraverso un sistema di amministrazione democratica basato su una politica democratica. La democrazia è un regime che offre a tutti ampie possibilità di esprimersi, organizzarsi e amministrarsi.

Se guardiamo alle specificità del Medio Oriente, questo aspetto risulta più chiaro. In Medio Oriente non si può parlare di un’unica società a carattere monistico. Tutte le società mediorientali sono intrecciate tra loro. Non è possibile scindere le società in base a criteri religiosi, di setta, etnici o culturali. Può darsi che le società possano chiamare nazioni le regioni su cui esercitano il proprio controllo e possano agire in base a questa definizione. Ma anche se così fosse, non sarà mai possibile parlare di un’unica nazione. In questo senso, la forma più appropriata di struttura sociale in Medio Oriente è il concetto di nazione democratica. Questo concetto enfatizza sia il carattere culturale e democratico della costruzione della nazione, sia la dimensione culturale delle nazioni che si fondano su una base democratica e che esprimono una vita equa e libera. Rifiutiamo quindi il monopolio capitalista e la sua estensione organica, lo Stato-nazione, e proponiamo la costruzione di una vita basata sul socialismo e sulla comunità.

Perciò occorre trovare una soluzione ai problemi esistenti e proporre un paradigma che superi lo Stato-nazione per costruire una forma di vita socialista. Senza un paradigma che vada oltre lo Stato-nazione, non è possibile un’azione socialista, e nemmeno pensare di risolvere i problemi della società. Lo Stato non è un dispositivo introdotto dal socialismo. Così pure la nazione non può essere un mezzo su cui edificare il socialismo. Eppure, è necessario risignificare la nazione come forma sociale e includerla nel socialismo. Questo è stato il lavoro della leadership del PKK. La concezione e la realizzazione della nazione democratica è oggi la forma sociale che meglio incarna le libertà promesse dal socialismo. Avremo allora una comunità in cui tutti si possano esprimere liberamente, in cui le differenze riescano a convivere, in cui le diverse realtà si organizzino ed esprimano se stesse e in cui si rispetti l’esistenza degli altri.

Possiamo considerare questo modello sotto due punti di vista. Se si considera lo Stato nazione, in Medio Oriente possiamo osservare ogni sorta di sventura, tra cui guerre, caos, egemonia, sfruttamento. Lo si può constatare chiaramente osservando il regime fascista in Turchia, negli Emirati Arabi e in altri Stati. È evidente come lo Stato nazione abbia comportato una dominazione, uno sfruttamento e un’oppressione sconfinati. Questo perché è un sistema che è stato concepito appositamente. Non è possibile fondare la libertà su un sistema di questo tipo e con i suoi strumenti.

Se la società all’interno di uno Stato-nazione è dominata da un determinato gruppo confessionale o etnico, essa non riconoscerà il diritto all’esistenza degli altri gruppi. Le società araba, persiana e turca non accettano il diritto all’esistenza dei curdi. Gli sciiti e i sunniti non si riconoscono reciprocamente il diritto di esistere. Gli Stati fondati sulle religioni monoteiste non riconoscono il diritto alla vita di altre religioni. Si tratta di un sistema edificato sulla reciproca distruzione. Ora, se si decide di intervenire in Medio Oriente sostenendo il vecchio modello di Stato e di nazione, allora si finisce per precipitare nel caos con una nuova arma di distruzione. Il socialismo non può essere questo! Questo non è socialismo. Che cos’è invece il socialismo? Il socialismo consiste nell’indagare a fondo le strutture su cui si basa il capitalismo e nel creare un’alternativa a queste strutture.

Se partiamo da un presupposto socialista e crediamo che nel socialismo non ci sia spazio per l’oppressione e il dominio e che invece si debba anteporre la libertà e l’uguaglianza; se crediamo che lo Stato sia uno strumento di dominio e di sfruttamento, allora tutti i concetti e i modelli che si possono elaborare devono essere coerenti con il nostro pensiero. Il socialismo non può essere costruito per mezzo della distruzione di qualcun altro. Bisogna intendere la nazione democratica all’insegna della libertà di tutte le forze fondamentali che costituiscono una società e come un concetto basato sull’uguaglianza. Questo concetto trascende lo Stato-nazione. È una concezione in cui si esprimono al meglio tutte le libertà di cui il socialismo ha bisogno.

**All’interno del vostro movimento esistono il PKK, il KCK, il PAJK, il KJK, le HPG, e in tutte le parti del Kurdistan esistono organizzazioni come, ad esempio, nel Rojava, il PYD, il TEV-DEM, il KONGRA-STAR, le YPG, le YPJ e nel nord della Siria anche il Consiglio Democratico Siriano e le Forze Democratiche Siriane (QSD). Queste organizzazioni hanno a loro volta delle sotto-strutture e delle sotto-organizzazioni. È questo il modello pratico di socialismo suggerito da Öcalan? Con tutte queste organizzazioni distinte, qual è il loro ruolo e la loro funzione e come si relazionano, anche dal punto di vista giuridico?

Questo aspetto andrebbe discusso in dettaglio, ma posso fornire alcuni elementi generali. Stiamo parlando di un paradigma. Ciò che la nostra leadership ha sviluppato è un paradigma. E non è un paradigma rivolto a una particolare regione o a una specifica formazione sociale. È piuttosto un paradigma socialista universale. Noi parliamo di socialismo mondiale. Bisogna prima di tutto inquadrare il paradigma in questo modo. Se per un verso la nostra leadership ha il merito di aver ideato questo paradigma, per l’altro ne ha presentato uno nuovo attraverso la critica del socialismo reale. In pratica, ha creato un nuovo paradigma di socialismo. Ora, questo non deve essere visto come un paradigma appannaggio di una sola organizzazione. È assolutamente possibile che molte forze partano da questo paradigma e lo adattino alla propria area, alla propria regione e ai propri problemi. Questo è ciò che significa universalità.

Questo paradigma non è rivolto solo ai curdi e nemmeno solo al Medio Oriente. Bisogna interpretarlo come uno strumento applicabile in tutto il mondo e dargli la possibilità di essere messo in pratica dappertutto. Se guardiamo ad esempio al Rojava, abbiamo il PYD, le YPG e le YPJ. Ora il PYD e le YPG sono impegnate soprattutto nella risoluzione dei problemi dei curdi in Siria. Ma non si limitano solo ai curdi. Stanno tentando sostanzialmente di risolvere la questione curda, ma non ignorano il carattere universale del problema.

Tanto il progetto quanto la struttura pratico-organizzativa sono di carattere universale. Né il PYD né le YPG sono il PKK. Sono però forze curde che si ispirano al paradigma dell’autonomia democratica. Nel Kurdistan orientale è presente un’altra forza, come pure nel Kurdistan meridionale e nel Kurdistan settentrionale: questo è l’approccio del paradigma. Tutti lottano cercando di formulare il proprio problema dal punto di vista politico, sociale, organizzativo e pratico, sulla base di questo paradigma.

Diciamo così: nel Kurdistan settentrionale operano forze che lottano contro il colonialismo della Turchia. Nel Rojava ci sono le YPG-YPJ. Ci sono anche diverse forze nel Kurdistan orientale e meridionale. Dal momento che queste forze condividono lo stesso paradigma, è naturale che si relazionino tra loro in modo sistematico. Dobbiamo considerare il paradigma come una base comune. Il paradigma consente a ogni settore politico, sociale, etnico, culturale e alle donne di sviluppare l’autogoverno basato sulla propria libertà e uguaglianza. Ognuno è libero di decidere e di votare nell’ambito del proprio settore. Esistono poi problemi comuni che coinvolgono tutti questi settori e aree. In questo caso, tutti hanno il diritto di esprimere la propria posizione. Questa è la nostra condizione giuridica. Ma soprattutto è una condizione morale. Con il termine morale intendo dire che nessuna persona o sezione della società è dominata da un’altra e viene privata della sua libertà e volontà.

Tutte le questioni legate alla liberazione e all’organizzazione delle donne sono considerate in questo modo. Possiamo dire che questo paradigma ha una sua precisa dimensione di libertà femminile. Le donne hanno saputo riconoscere che la loro libertà discende da questo paradigma e hanno elaborato una sintesi tra socialismo e liberazione della donna sulla base dell’identità femminile. Come si può constatare, il movimento delle donne è diventato una forza estremamente importante. Nella guerriglia nel Kurdistan settentrionale, la donna è diventata una straordinaria forza di libertà e di organizzazione. Le YPJ sono una forza che suscita grande meraviglia in tutto il mondo. Il Rojava ha anche mostrato una forza ideologica, organizzata e combattiva che è in grado di sconfiggere una forza brutale come l’ISIS. A questo punto è possibile comprendere tutte le formazioni della regione in questo contesto. Su questa base si possono considerare anche i movimenti ecologisti e vari altri movimenti.

In breve, bisogna considerare il paradigma elaborato dal presidente Apo non solo come un paradigma per i curdi e per la libertà del Kurdistan. Il PKK e il PYD sono movimenti che perseguono una concreta rivoluzione in Kurdistan. In questo senso, il paradigma della leadership è una linea guida fondamentale per loro in Kurdistan. Ma considerare il paradigma della leadership come un paradigma che riguarda esclusivamente la comunità curda e che si limita a rappresentare la società curda e la sua liberazione è un grave pregiudizio. Al contrario, questo paradigma è un paradigma che non fa distinzione tra l’una o l’altra struttura sociale etnica e che non attribuisce a nessuna identità sociale minore importanza rispetto all’altra.

Questo è il paradigma socialista che deve essere sviluppato prima di tutto in Medio Oriente e poi in tutto il mondo in un’ottica internazionalista. Naturalmente, è necessario che le maggiori espressioni di questo paradigma siano strettamente integrate e si sostengano a vicenda, per cercare di colmare i suoi difetti. Ad esempio, oggi che il capitalismo è in crisi, non è più accettabile che i movimenti libertari nel mondo siano così frammentati. È quindi indispensabile avviare una cooperazione tra le forze anticapitaliste e antimperialiste. Anzi, bisognerebbe addirittura ampliare il nostro campo visivo. Per contrastare il capitalismo globale dovremmo fondare una democrazia globale.

Il capitalismo non è più in grado di reggersi in piedi. L’egemonia mondiale dell’imperialismo si sta incrinando, e non può durare. Se oggi riesce in qualche modo a sopravvivere, ciò è dovuto al fatto che la linea della libertà non è in grado di esprimersi in maniera significativa, perché non si organizza e non si traduce in una lotta. Dal momento che il sistema capitalistico mondiale è articolato a partire da un centro, è necessario che le forze della libertà realizzino un’unità internazionalista improntata alla democrazia. Diversamente, non potremo mettere fine al capitalismo e all’imperialismo. A questo proposito disponiamo già di esperienze maturate in passato. Dobbiamo tenere conto di queste esperienze. Le esperienze della Prima, della Seconda e della Terza Internazionale sono preziose, malgrado le loro numerose insufficienze. Questo vale ancora di più per il presente.

Un paradigma che non abbia carattere universale non può dirsi socialista. Per questo a nostro avviso urge la creazione di un’Internazionale di liberazione. Esistono già alcuni sviluppi promettenti. In particolare, la rivoluzione del Rojava, nonostante le sue deficienze, ha dimostrato un notevole potenziale in questo senso. I suoi traguardi hanno determinato un crescente interesse per i movimenti rivoluzionari socialisti della regione. A livello internazionale si è risvegliato un grande entusiasmo. È molto importante che persone di tutto il mondo, che lottano realmente per la libertà, vengano a partecipare. Ma non ci si deve limitare a ciò. Se guardiamo ai risultati che questo paradigma ha ottenuto, è necessario creare un’Internazionale in cui tutte le forze della regione e del mondo possano coordinare la loro lotta.